Abbiamo richiesto all’artista noto come NeO-ONE un articolo sugli affreschi di Piero della Francesca della nostra città e, nel suggerirgli lo spirito con il quale scrivere il commento, lo abbiamo lasciato libero di far emergere il suo pensiero e il suo stile, evitando ogni retorica da enciclopedia e ogni dettaglio da audiolibro. La richiesta è stata rispettata.
Sarò brutale: alla maggior parte degli esseri umani, purtroppo o per fortuna, i Gesùcristi annoiano.
Superato lo shock iniziale che la mia tesi possa aver causato nel lettore, forse mi si potrà dare ragione quando mi giustificherò scrivendo che, almeno per un italiano (e per un europeo, in certa misura) le Grandi Opere Rinascimentali non possono evitare d’essere, stringi stringi, evidente proliferazione, innegabile sovrabbondanza, onnipresente ridondanza, straripamento e saturazione di immagini sacre – vale a dire, Madonne in tutte le salse, Santi di contorno e, dulcis in fundo, poveri Cristi in varie fasi di pre o post maltrattamento. L’effetto che questa costante presenza del medesimo vecchio tema ha avuto su molti di noi è ed è stato un’abissale indifferenza, un’apatia capace di far del male.
Il cervello umano, lo sappiamo tutti, è una strana macchina: si riempia una spiaggia di mille belle ragazze e una verde scimmia pelosa di sei metri, e il nostro occhio sarà inevitabilmente attirato – nostro malgrado – su quell’interruzione di uniformità, per quanto sgradevole essa sia rispetto all’alternativa. Si getti un comune sassaccio inzaccherato di terriccio nel bel mezzo d’un mare di diamanti e, di nuovo, come potrà il nostro sguardo resistere a quel qualcosa di differente rispetto all’ovvio? La verità è che siamo desensibilizzati all’idea delle Grandi Opere, come per l’appunto per gli affreschi della Leggenda della vera Croce di Piero della Francesca, ancor prima di approcciarci ad esse. Per quanto irraggiungibile ci possa apparire la chiave di lettura di un’Opera come quella del pittore di Sansepolcro, è proprio nell’accantonare pigrizia e i preconcetti, che possiamo accogliere qualcosa di paragonabile ad un’illuminazione. L’arte è anche questo: scalare ciò che crediamo essere così perdutamente noioso per rivelare livelli di lettura sorprendenti, messaggi nascosti, sforzi creativi commoventi.
Di Piero della Francesca non stilerò troppi elenchi di aneddoti, sterili date e dati su un uomo a cui il mistero dona dopotutto piuttosto bene. Dirò il minimo: nacque e morì in date dai contorni traballanti (i registri anagrafici dell’epoca erano precisi quanto un cavallo ubriaco che faccia un’operazione a cuore aperto a una mosca) incorniciabili comunque attorno al 1400. In questi anni carichi di progressi artistici inenarrabili, intrighi politici spietatissimi e fervore intellettuale che oggi ci scordiamo, a Piero della Francesca viene chiesto di dipingere la storia leggendaria della Croce di Cristo, dalla sua origine fino al suo ritrovamento da parte di Sant’Elena e la successiva battaglia tra Eraclio e il re persiano Cosroe per il suo possesso.
“La Leggenda della Vera Croce” richiede 14 anni di lavoro non continuo, tra il 1452 e il 1466 nella chiesa di San Francesco ad Arezzo. Gli viene commissionato questo monumentale lavoro quando è già un artista affermato, nel pieno della sua maturità, mentre lavora tra Ferrara, Rimini e Urbino. L’opera gli viene affidata probabilmente dai frati francescani, subentrando a Bicci di Lorenzo, che aveva iniziato il ciclo ma poi era morto nel 1452. Questo Bicci era un artista melensamente tradizionale, legato a doppia mandata agli schemi medievali, vagamente polveroso e grigiastro, innegabilmente tecnico ma tutt’altro che innovativo, e di conseguenza apprezzatissimo dalle varie committenze ecclesiastiche.
Piero in ogni caso si trova di fronte ad una commissione più che imponente – affrescare la parte più visibile della cappella maggiore della Chiesa di San Francesco, quasi otto metri per cinque, ed ha intenzione di farlo quale testimone del passaggio da una concezione medievale dell’arte a una più moderna – la sua, ovverosia quella Rinascimentale.
Ti srotolo davanti agli occhi l’inevitabile quanto stringata descrizione dei pannelli del ciclo:
Sei pannelli dei profeti (i due frontali 11 e 12) che avevano prefigurato l’avvento di Cristo e la sua Croce decorano la parte superiore delle pareti della cappella: Isaia, Geremia, Ezechiele, Daniele, Michea, Abacuc.

Ogni profeta è affrescato con una postura solenne, come se proclamasse la propria profezia. L’inserimento di queste figure non è solo elemento decorativo, ma testimonia la continuità tra l’Antico e il Nuovo Testamento, legando il sacrificio della Croce alle profezie bibliche.
I pannelli principali, invece:
1) La creazione dell’albero di Jesse: L’albero sacro che, secondo la leggenda, discende da Seth e darà origine alla Croce di Gesù sta geometricamente proprio al centro dell’affresco, mentre Adamo, nella cui bocca verrà messo il seme prima della sua sepoltura è relegato in un angolo, morente. Inevitabile pensare al Rinascimento che sboccia dal cadavere del Medioevo, così come a Piero stesso che sboccia dopo la dipartita di Bicci di Lorenzo.
2) La Regina di Saba rende omaggio a Salomone: L’ incontro tra la Regina di Saba e Salomone. La Regina riconosce in una trave di un ponte il legno dell’Albero della Conoscenza e si inginocchia di fronte ad esso (nella parte sinistra della composizione) Inchinandosi poi di fronte a Salomone (in quella destra) che farà seppellire il legno sacro.
3) Seppellimento della Croce: Per volere di Salomone, la Croce viene interrata.
4) L’Annunciazione: Dio invia un angelo ad annunciare a Maria la venuta di Cristo – la struttura a quattro punti focali del dipinto è disposta esattamente come una croce, notate.
5) Il sogno di Costantino: L’imperatore Costantino sogna un angelo che gli porta la rivelazione della Croce e della futura vittoria su Massenzio: tutto ciò lo spingerà a convertirsi al cristianesimo. La composizione dei pannelli geometrica e ritmata, l’uso dei colori chiari e brillanti dirige lo sguardo sui personaggi principali senza nemmeno farcene accorgere.
6) Vittoria di Costantino su Massenzio: Costantino sconfigge gli avversari a Ponte Milvio e mostra loro una croce. L’intenzione del pannello traspare nonostante il tremendo squarcio orizzontale che offende l’immagine: la relativa immobilità statuaria dell’esercito vincente (sulla sinistra) occupa i ¾ dello spazio, contro ai colori più scuri e alla dinamicità dei battuti in scomposta fuga (sulla destra), che occupano solo ¼ della dispozione, disperdendosi fuori campo.
7) Tortura di Giuda: La scena mostra l’unico uomo a conoscenza della posizione della Croce, questo viene torturato allo scopo di rivelare ciò che sa. Il bilanciamento degli elementi in questo pannello è affilatissimo: il nostro sguardo non può che scorrere lungo le travi del giogo, fino al pozzo di punizione e nuovamente in alto, formando un triangolo isoscele.
8) Il ritrovamento della Croce da parte di Elena: Nella parte sinistra del pannello, Santa Elena trova tre Croci sepolte a Gerusalemme. Nella parte destra, per capire quale fosse la Croce di Cristo, Elena fa portare un ragazzo morto da poco che, esposto alla Reliquia, risorge all’istante. Qui la prospettiva, la composizione geometrica e il ritmo degli elementi pittorici accompagnano gli occhi dell’osservatore a percepire la quiete prima della tempesta del prossimo pannello.
9) La battaglia di Eraclio contro Cosroe: L’imperatore bizantino Eraclio riconquista la Croce e vince la battaglia di Ninive contro il re persiano Cosroe, che aveva trafugato la reliquia. Certamente è il pannello più complesso e traboccante di colori, principalmente bianco e rosso: purezza e sangue. Più osserviamo l’apparente delirio, più appare chiaro ciò che realmente è: ordine, geometria, struttura, luce.
10) Esaltazione della Croce: L’imperatore ritorna trionfante a Gerusalemme con la Croce, simbolo della vittoria divina. Un’ennesima cicatrice grigia divide a metà il pannello, esaltando casualmente la disposizione ordinatissima degli elementi nella parte sinistra e destra della scena, quasi a voler sottolineare ulteriormente l’intensità del ritorno della Reliquia.
Su tutte queste scene brulicanti di colore, struttura e significato si staglia il crocifisso non di Piero della Francesca ma di Margheritone d’Arezzo, dipinto 200 anni prima degli affreschi e in parte nascosto dietro ad esso.
Ed è proprio questa, la metafora che mi trapana maggiormente il cervello. Come per secoli e secoli, attorno a vecchie idee, a vecchi stili, a ripetute formule si è continuato a voler costruire impetuosamente ulteriori ripetizioni. Proprio al centro e di fronte ad un capolavoro, ecco quasi fluttuare in mezzo al nostro campo visivo un’opera che vorremmo quasi (oso dirlo!) scostare con la mano, staccare dal suo posto e poggiare (con cura, s’intende) sia pure solo per un’istante un po’ più in là, allo scopo di riuscire a vedere senza distrazioni la visione di un innovatore, Piero della Francesca, nella sua interezza.
Perché nonostante la suddetta proliferazione, sovrabbondanza, ridondanza, straripamento e saturazione di immagini sacre trite e ritrite, alcune opere traspirano personalità, visione, genio. Ed è forse questo che amo di questi affreschi di Piero della Francesca. Ciò che intravedo in un’espressione di una delle sue figure, nella scelta cromatica di un particolare, nella composizione degli elementi, negli ineffabili equilibri e nelle scelte stilistiche avventurose. Soprattutto amo quella sua assenza di timore e sospensione di ogni reverenza per la staticità monolitica dei vecchi maestri, in cambio di un’indomabile volontà di dire ciò che non era mai stato detto, se non spezzando quantomeno incrinando le catene che hanno imprigionato la visione artistica alla colonna della fede e del dogma.
E se tale disperata audacia non vi rappresentasse assoluta eccellenza, andate pure a chiedere a Bicci di Lorenzo o a Margheritone che cosa lo sia, invece.
da “L’Alfiere” – n. II – 2025, pagg. 14-16
NeO-ONE