Intervistare Don Alvaro è impegnativo nella misura in cui la sua capacità comunicativa fa sembrare tutto semplice anche quando tratta argomenti complessi dove la fede appare una normale conseguenza della stessa esistenza. Ma il rapporto che lega il nostro gruppo al “Parroco della Giostra” mi mette nella condizione di porre alcune domande nell’attenta curiosità delle risposte che verranno date e che, con piacere, vorrei condividere con quanti ci seguono nella lettura del nostro periodico.

Quindi, Don Alvaro, da quanti anni accompagna questo gregge aretino che, a torto, Dante Alighieri definì “botoli ringhiosi”. E quanto, secondo lei, c’è di vero in questa sprezzante definizione?
Intanto vorrei fare una considerazione sulla definizione “botoli ringhiosi”, riferita non tanto al disprezzo del popolo aretino ma, credo, alla presenza sullo stemma cittadino di un piccolo cane che affronta un grosso cinghiale e quindi, nella specifica definizione dantesca, probabilmente sottintende la tenacia di una piccola città (Arezzo) di resistere alla sovrastante forza della città di Firenze. Questo potrebbe trovare conferma quando lo stesso Dante ebbe a dire “Ebbi temenza grande”, cioè temetti di morire nello scontro con gli aretini, in quanto presente nelle prime fila dell’esercito fiorentino nella battaglia di Campaldino. In definitiva più che disprezzare riconosce il valore di una città che non si sottomette facilmente e probabilmente anche l’esito dello scontro sarebbe stato diverso se Guido Novello, invece di rinchiudersi nel suo castello, avesse attaccato, come stabilito, con la sua cavalleria. Ma come si dice: “Guelfo io son e Ghibellin m’appello” nel senso che sto con chi vince, confermando un comportamento ancor oggi in uso.
Io sono giunto ad Arezzo 32 anni fa e nell’occasione il canonico Don Pietro Buresti, vecchio parroco di Sant’Agnese e accanito quartierista, mi ha introdotto nel mondo della giostra che a me è subito piaciuto per la bellezza dei colori, della musica dello spettacolo che si realizza ma soprattutto perché è un modo per incontrare la gente e di conoscerla. Naturalmente uno deve propendere per un quartiere, altrimenti significa che della Giostra poco gli importa ma io devo essere anche di tutti i quartieri perché nei quartieri si incontra la gente, il popolo. Si incontra la città, quella vera. Quindi a me piace molto il mondo della Giostra in tutte le sue componenti: quartieristi, sbandieratori, musici cavalieri e armati del comune, proprio perché in loro si identifica quel popolo di cui si diceva pocanzi. Ti dico anche che il Signa Arretii si è costituito lo stesso anno del mio arrivo ad Arezzo e forse anche questo può avere un significato di buon auspicio.
Mi identifico nella sua definizione quando dice: “La Pieve è la Parrocchia di tutti gli Aretini” perché mi piace pensare che la cittadinanza ha un luogo che può ritenere una sua seconda casa. Fino a che punto questa affermazione trova riscontro nei comportamenti comuni e cosa servirebbe, secondo Lei, per poter dare ulteriore diffusione a questa straordinaria opportunità?

Si, questo è importante, considero la Pieve come Parrocchia di tutti gli Aretini anche in virtù del fatto che Pieve deriva da Plebs – Popolo, quindi chiesa del popolo (della gente), Chiesa Madre di Campagna, a capo di un numero più o meno vasto di parrocchie, all’interno della quale c’era l’unico fonte battesimale di una certa zona. (Solo dopo il 1400 fu concesso il Fonte alla Cattedrale). Anticamente il battesimo avveniva per immersione e per questo necessitava di acqua in abbondanza, ecco la presenza all’interno della Pieve di un antico pozzo, etrusco e romano, quasi sicuramente utilizzato anche dal nostro Patrono San Donato per battezzare i nuovi cristiani. Dovete sapere anche questa particolarità che un tempo i giovanotti aretini andavano in San Francesco per trovare la fidanzata e una volta trovata andavano poi alla messa in Pieve: la loro casa. C’è stato poi un periodo in cui la Pieve è stata, per così dire, dimenticata dalla cittadinanza, tendenza questa che fortunatamente si è invertita ed ora torna ad essere, nell’animo di molti, la Chiesa Madre del popolo di Arezzo.
Quando cerco di fargli notare che probabilmente la sua presenza ha avuto un ruolo determinante in questo, sorvola non dando peso alle mie considerazioni ma indubbiamente se si vuole attirare i fedeli è in primo luogo necessario aprirgli le porte, e questo Don Alvaro lo fa costantemente con tutti.
Come dicevo, il mio interesse per la Giostra inizia sin dal mio arrivo ad Arezzo in virtù del fatto che la Giostra è una festa di popolo e io sto bene con il popolo e sono lieto di pensare che potrei essere definito “il Parroco della Giostra”.
Il calendario Giostresco prevede alcuni suggestivi appuntamenti in Cattedrale, quando ospita i figuranti con vessilli, bandiere, trombettieri, tamburini e armati, riportandoci, con una punta di sano campanilismo, all’epoca di Guido Tarlati e Guglielmo degli Ubertini. Ma il momento più concitato ed esaltante è sicuramente quando la Lancia d’Oro viene condotta, di fronte alla Madonna del Conforto, dal popolo del quartiere vincitore. Come vive quei momenti di disordinata euforia e come riesce a riportare l’attenzione dei partecipanti al vero scopo della loro presenza nella Cappella?
Qui mi voglio un po’ autoincensare dicendo che prima del mio arrivo ad Arezzo, 32 anni fa, la Giostra non era mai entrata in Duomo, restando unico il contatto con il vescovo nel sagrato, in occasione della benedizione prima di iniziare il corteo per entrare in piazza. Mai un vessillo era entrato in Duomo e questa la ritenevo una grave mancanza. Oggi posso dire di essere riuscito a farvi entrare tutte le compagini: per l’offerta dei ceri, per la benedizione della lancia, per l’offerta dei ceri a San Donato, per la festa della Madonna del Conforto e con il Te Deum, tutte occasioni suggestive, partecipate dalla cittadinanza e dai turisti. Importante che ai colori e alle musiche si accompagnino anche momenti di raccoglimento e di preghiera. Fra tutte le ricorrenze la più tumultuosa è sicuramente il ringraziamento nella cappella della Madonna del Conforto da parte del quartiere che ha vinto la giostra. Questa cerimonia è iniziata nel 1996 quando Santo Spirito, dopo molti anni, vinse la lancia d’oro dedicata, in quella edizione, alla Madonna del Conforto. Da allora il quartiere che vince viene sempre in duomo a rinnovare il saluto ed il ringraziamento alla Madonna.
Con un sorriso consapevole franchezza Don Alvaro continua:
Non è una cerimonia propriamente religiosa, udite le grida e i cori che accompagnano l’ingresso in duomo dei figuranti e dei quartieristi ma a me piace vedere tutti quei giovani invadere letteralmente la chiesa. Molti di loro non sono assidui frequentatori ma mi piace pensare che entrando, in cuor loro, leghino la gioia del momento al luogo e alla Madonna del Conforto. Sì, sono contento di accoglierli nella casa degli aretini, nonostante i loro cori “poco liturgici” e i salti sulle panche. Se vogliamo dopo la vittoria conseguita sulla lizza questo è il secondo momento importante della Giostra, poi seguono i festeggiamenti, le feste e le cene, ma quello in chiesa, nella Cappella della Madonna, ha un sapore e un’importanza speciale.
Si, sono momenti di gran concitazione ma poi si riesce sempre a riportare la calma, almeno per il tempo di recitare un’Ave Maria e impartire la benedizione, prima di salutare il corteo che, festante, riparte per il quartiere.
In quell’occasione ci vuole tutta la sua pazienza ed il rispetto che gode per riportare ordine e compostezza da parte dei quartieristi, letteralmente impazziti di gioia per la vittoria conseguita…. Anche da questi particolari si capisce che Don Alvaro conosce bene il nostro mondo, quello della Giostra.
La Giostra con i suoi armati quindi non erano mai entrati in Duomo ma, data questa apparente distanza, in quale altra occasione si può trovare traccia di questo rituale della benedizione degli armati ad Arezzo?
Si esisteva questo rituale della benedizione, si pensi all’esempio più importante delle crociate ma in terra d’Arezzo vale la pena di ricordare come il citato Guglielmo degli Ubertini, Guglielmino, Vescovo Guerriero, prima di morire nella battaglia di Campaldino, come ultimo suo atto si fa riconoscere e, dando l’assoluzione, benedice tutti i soldati. Quindi a parte le cosiddette guerre sante, la benedizione solitamente non veniva rivolta alla guerra, bensì ai soldati e quindi alle persone che si esponevano e si battevano per un ideale. Qui un piccolo inciso, anche io ho combattuto una sorta di “seconda battaglia di Campaldino, stavolta vittoriosa, inquanto sono riuscito, nel 2008, a far tornare nel Duomo di Arezzo le spoglie di Guglielmino degli Ubertini, fino ad allora conservate nel convento di Certomondo a Poppi.
Per cronaca va anche detto che in origine ad Arezzo le varie disfide non vedevano coinvolti i quartieri bensì singoli cavalieri: una sorta di gara di abilità riservata ai nobili di casata. Quindi non c’era neppure da dover ricorrere alla benedizione di chi, per competizione, si affrontava con la corsa dei “cavalli scossi” che terminava davanti alla Pieve o con la corsa “al tondo” al prato; in questi casi vinceva il proprietario del cavallo o il singolo cavaliere. A Siena, al contrario, sin dal 1600 erano le contrade, e quindi i contradaioli, che davano vita al Palio. A proposito della corsa “al tondo” devi sapere che il campanile del Duomo in origine non aveva la punta ma finiva con un terrazzino. Il 7 agosto era in uso che i canonici mettessero al fresco, nel pozzo del Duomo, dei poponi e dei cocomeri che si facevano poi portare su nel terrazzino dal sacrestano per mangiarseli mentre assistevano alla corsa. Fatta la cuspide del campanile, terminata l’usanza e terminata anche la “corsa al tondo” -non so se le due cose coincidono così perfettamente ma è simpatico crederlo.
Si è simpatico credere a questa coincidenza che impossibilitati ad assistere alla corsa, gustando i poponi freschi, i canonici abbiano influito nel far cessare la corsa al Prato….

Ripensandoci, anche voi Sbandieratori, che eravate stati in giro per tutto il mondo, non avevate mai messo piede in Duomo. Probabilmente fu in concomitanza, non ricordo se del vostro trentesimo o cinquantesimo anno dalla fondazione che, parlando con l’allora direttore tecnico Livi, fu creata l’occasione per una vostra presenza in Cattedrale. Poi a Coppini suggerii di celebrare la messa a suffragio dei vostri defunti, accompagnando il ricordo dei nomi con il fruscio delle bandiere, a simboleggiare l’anima che sale verso il cielo, creando un momento di forte emotività. Questa immagine mi fu suggerita ascoltando il racconto di un giovanissimo alfiere che, nel sostituire nel ruolo il nonno, andò a sventolare il drappo nel momento in cui veniva calato nella tomba, in segno di rispetto e di impegno nel tramandarne la tradizione. Bellissima immagine, bellissima come quella delle vostre bandiere che salgono in alto a simboleggiare le anime dei vostri cari che volano in cielo per non ridiscendere più.
Effettivamente la cerimonia ha un forte impatto emotivo e la particolarità, data dalla presenza degli alfieri in costume, fa si che spesso anche la gente comune o i turisti si soffermino e ci chiedano informazioni per tornare ad assistere l’anno successivo.
Infine, come valuta il trapasso generazionale tra le fila dei figuranti della Giostra. Un tempo c’erano i “vecchi”, mi passi il termine, mangiapreti che tuttavia avevano il rispetto delle istituzioni e dei luoghi che frequentavano. Oggi queste figure hanno lasciato il posto alle nuove leve alle quali è affidato il gravoso compito di portare avanti le tradizioni. Come valuta questo processo?
In passato la Giostra ha vissuto momenti durante i quali veniva considerata una manifestazione di secondo ordine, poco partecipata dalla città e riservata alle classi più “chiassose”, capitanate da pittoreschi personaggi sempre pronti ad un confronto non solo verbale con l’avversario. In quel contesto anche i parroci si mantengono defilati e non risultano coinvolti con la manifestazione. Poi c’è stato il tentativo di rilanciare la Giostra che ha cominciato a crescere, imponendosi regole e comportamenti. Contemporaneamente anche la chiesa ha rivalutato l’evento e mi sento promotore delle iniziative che hanno favorito l’ingresso delle compagini in Duomo, in primo luogo, poi anche alla Pieve e in altre chiese. Iniziative che, come dicevamo, si sono moltiplicate fino a scandire praticamente tutti gli appuntamenti del calendario Giostresco. Voglio anche ricordare il vostro appuntamento in Pieve per gli auguri di Natale alla città, quando vi esibite in chiesa e sul Presbiterio: quale contesto migliore di quello offerto dagli splendidi interni dove si incontrano il romanico ed il gotico, con le sue altezze che accolgono i lanci delle bandiere in uno spettacolo veramente emozionante. Sarà che mi sento un po’ “parroco di campagna” ma sono contento nel vedere tutta la gente entrare in chiesa per condividere i momenti salienti della Giostra, vengono tutti, anche quelli meno avvezzi a frequentare le funzioni religiose e anche questo contribuisce a rendermi felice, le porte restano aperte per tutti. La vita sociale e quella religiosa si incontrano riconoscendone la reciproca importanza. Infine, quello che posso dire è che oggi, più di prima, si dialoga con il mondo della giostra e quindi le nuove leve hanno favorito questo passaggio in chiesa, ricreando la “sacralità” dei momenti importanti della rievocazione storica.
Mi rendo conto di aver preso anche troppo tempo a Don Alvaro, ma la conversazione si è rivelata veramente interessante e divertente per gli aneddoti raccontati. Ci salutiamo infine molto cordialmente, con la promessa di rivederci presto per una visita in cattedrale con una guida d’eccezione: Il Parroco della Giostra.
da “L’Alfiere” – n. IV – 2024, pagg. 6-9
Carlo Lobina