Per la esatta ragione e necessità dell’esistenza di un mondo lontano, immaginato e desiderato, che James Cook si mise in mare e dopo un indicibile navigare ci consegnò l’idea di orbe terracqueo che possediamo oggi. Nei mappamondi della seconda metà dell’ottocento sì cominciò a leggere il nome Nuova Zelanda dove prima c’era solo il vago concetto di una Terra Australis Incognita. Immaginate quindi che brivido appassionato colse lo sbandieratore che nel 2000 vi venne invitato per contribuire, con il proprio maneggiar le insegne, allo svolgimento della Americas Cup di vela. La competizione vedeva frapporsi lo scafo neozelandese e Luna Rossa del patron Bertelli e fu proprio lui a volerci, grazie ad una triangolazione fortunata con l’amministrazione comunale di Arezzo. Una squadra era già impegnata in oriente e quindi il gruppo allestito per questa trasferta inaspettata quanto grandiosa era composto da molti giovani sotto la guida di alcuni veterani. Fra questi il nostro attuale presidente Giovanni Bonacci. Io stesso che scrivo venni ripescato, dopo alcuni anni di inattività. La nostra serie di esibizioni ha ruotato attorno allo svolgersi della competizione velistica, con performances nella città di Auckland, capitale del Paese e principale città dell’isola del Nord. Oltre a questo genere di impegni per così dire tradizionali, il legame di Bertelli con la Giostra del Saracino ha fatto sì che fossimo ospitati nella struttura di Luna Rossa, dove siamo stati trattati con grande magnanimità.

Era emozionante entrare la mattina della regata fra i cancelli che introducevano nel quartier generale di Luna Rossa: tante persone e tifosi fuori e una atmosfera da Coppa del Mondo di calcio, per un paese che oltre che di rugby vive di vela. Degno di menzione l’atteggiamento di Bertelli che prima della salita dell’equipaggio su luna rossa per l’inizio della gara, saliva da solo fra due schiere di sbandieratori e al nostro suono di Terra d’Arezzo apriva uno scrigno e issava una piccola bandiera sull’albero di Luna Rossa. Ho sentito personalmente il chiedersi di varie persone a quale yacht club appartenessero quei colori rosso verdi che Bertelli con orgoglio e fare celebrativo faceva garrire sul punto più alto di quel gioiello di tecnica da regata. Noi sbandieratori sorridendo vedevamo i colori di Porta Crucifera!

La nostra permanenza in Nuova Zelanda era a “biglietto aperto” perché se non c’è vento non si gareggia e più volte siamo usciti su yacht al seguito dei due equipaggi che gareggiavano per poi rientrare con un nulla di fatto sportivo. Certo che però la bellezza difficile da spiegare della baia di Auckland faceva della nostra esperienza giornate da assoluti privilegiati. A questo proposito è rimasta memorabile una gaffe di chi scrive queste note: avvicinato da una intervistatrice locale per un parere sulla regata mi trovai a fare commenti solo sulla bellezza maestosa e fiabesca della baia, confessando candidamente che dell’aspetto sportivo non ero proprio interessato. La sera stessa con lo stupore di tutti notammo che le mie affermazioni totalmente fuori luogo erano usate come jingle per introdurre la pubblicità in un programma che era una sorta di “processo alla regata” in tv!

Il nostro tempo libero ha previsto anche escursioni in un paese verdissimo, montagnoso e dalle spiagge oceaniche di grande drammaticità. Terra giovane, con presenza di fenomeni geotermici violenti, vulcani e formazioni rocciose bizzarre. I colori e lo stesso odore della terra ci apparivano diversi da quelli consueti e abbiamo potuto apprezzare sia la rigogliosità della natura che la asperità delle montagne.

Ci è stato offerto un assaggio di cultura Maori con la visita ad un villaggio ed è qui che fa la sua comparsa la pars destruens di questa per altro importantissima esperienza. Le culture tribali messe in vetrina per i turisti, dall’Africa alle riserve indiane non possono che fare tristezza e i poveri Maori in abiti tradizionali non fanno eccezione. Continua ad essere sempre lo stesso mondo impostato sui bisogni occidentali. Dallo scopritore che si fa conquistatore siamo relativamente poco distanti e noi turisti di oggi acquistiamo con rispetto un biglietto esperienziale per qualcosa di ormai inesistente o quantomeno inadeguato e fuori contesto. L’uomo esotico portato nei circhi di mezza Europa dell’ottocento esiste ancora, per il piacere di una economia locale che ne beneficia e di un turismo sempre più di massa.

Ma sarebbe ingiusto chiudere con amarezza la serie di ricordi australi del nostro gruppo. Le foto con i bambini a scuola, le serate passate a esplorare i dedali del villaggio velistico pieno di attrazioni e soprattutto di scafi importantissimi, la vista del ritratto di James Cook nel palazzo comunale di Auckland, restano per sempre nella nostra memoria. Una memoria e una esperienza che, bandiera in pugno, ci ha fatto toccare in quel lontano 2000 il quinto ed ultimo continente che ancora ci mancava.

Come è noto la edizione 2000 dell’America’s Cup si concluse con la netta vittoria a zero della compagine di casa. I festeggiamenti in città furono sorprendenti e oltre alle manifestazioni spontanee venne organizzata una imponente parata cittadina alla quale abbiamo avuto l’onore di partecipare. Questo riferimento mi consente di ricordare il grandissimo livello tecnico delle Marching bands militari di tradizione anglosassone (cornamuse e tamburi appartenenti a reggimenti militari, in quanto tali professionisti a tutti gli effetti) alle quali appartengono a pieno titolo anche quelle dei paesi ex coloniali e del Commonwealth come la Nuova Zelanda. In questa occasione ci siamo trovati inseriti in un lungo corteo fra due grandi ali di folla nel centro della capitale e personalmente, da tamburino, è stato emozionante essere vicino a gruppi che della tradizione del tamburo militare hanno fatto una vera e propria arte. Ma come il lettore potrà immaginare il nostro valore aggiunto, in qualunque parata nel mondo, sono i colori dei costumi e la maestria nel maneggiarti le insegne, che hanno garantito, anche nel continente australe, un sonoro successo.

da “L’Alfiere” – n. III – 2017, pagg. 6-7