Cosa accomuna la Lancia d’Oro di giugno, vinta da Porta S. Spirito, con la ricorrenza dei 30 anni del ritorno dell’Inno della Giostra del Saracino, nell’edizione di settembre? Non vi sforzate, non ci riuscireste! Il legame è … un cappello! Se è noto che sulla bella Lancia dedicata a Giuseppe Mancini è effigiato un piumato copricapo da bersagliere, è ignoto ai più l’aneddoto che ci richiama alla memoria il settembre 1987, prima esecuzione in Piazza Grande dell’inno “ritrovato” e riarrangiato, Terra d’Arezzo (un cantico). Un aneddoto che ha l’effige di … un sombrero. Ma andiamo per ordine.

La genesi dell’Inno della Giostra è famosa e superlativa: 1932, seconda edizione dell’era moderna della Giostra del Saracino, podestà Pier Ludovico Occhini, compositore il celeberrimo Giuseppe Pietri, parole di Alberto Severi e arrangiamento di Pier Alberto Dini. La maestosa versione originale veniva suonata e cantata nei primi anni da oltre 90 musicisti e corale, per esser successivamente surrogata da una vieppiù gracchiante registrazione, fatta ascoltare al pubblico di Piazza Grande fino al 1972. Lì la storia si interrompe, non estranea l’idiosincrasia che il Sindaco Aldo Ducci aveva per un inno al quale “la camicia nera non gliela cava nessuno”. Dura dargli torto, ché le parole “or che risorgon gli animi d’Italia al nuovo sole” a un ben preciso periodo storico si riferivano.

Ma vivaddio la buona musica trascende la politica: la melodia e almeno la prima strofa del testo restano nel cuore e nella memoria degli aretini. Lo si sentiva ancora canticchiare in piazza o in qualche antica bottega – le poche rimaste – del centro storico. Per gli aretini, Terra d’Arezzo rappresentava ed esprimeva le emozioni del “Saracino”, ma significava anche l’appartenenza alla “Città”, valicando la passione di Quartiere, orgogliosi della cultura e della storia cittadina. La leggenda ci tramanda di un imbianchino che era solito cantarla a squarciagola lavorando di pennellessa. Forse fu questa improvvisata ugola a dare la stura ad una tradizione mai del tutto sopita, fatto sta che il padre di uno sbandieratore lancia al Direttore Tecnico Pasquale Livi l’idea di recuperarlo adattandolo agli strumenti a disposizione del Gruppo, trombe e tamburi. Siamo nel 1985. Grazie al figlio di William Monci, che concede una copia di quella vecchia registrazione, e indirizzati dalla mano esperta del compianto professor Mario Martini, ci si mettono di buona lena le trombe guidate da Edo Bonucci e i tamburi guidati da Angelo “Ivan” Luttini. Ne nasce lo spartito di un arrangiamento che gli Sbandieratori inseriscono nel proprio repertorio sin dall’anno successivo.

Già nel 1986 il regista della Giostra, Ettore “Bubi” Tattanelli, ne avrebbe gradito l’esecuzione in Piazza Grande, ma il Sindaco Aldo Ducci era ancora contrario. La musica fu comunque suonata, più o meno clandestinamente, solo sul sagrato del Duomo schierati davanti al Vescovo. Ci volle tutta la diplomazia del presidente Carlo Dissennati a fargli in seguito cambiare idea, e finalmente Aldo Ducci “non negò” l’esecuzione, nel settembre 1987 l’inno sarebbe risuonato in Piazza Grande.

Avuto il via libera, era doverosa una meticolosa preparazione. E qui nacquero le discussioni. Si doveva ottenere il miglior risultato, tenendo a bada l’indole dei protagonisti, alcuni dei quali inclini alla facile incazzatura o, per dirla all’aretina, a «prendere un capèllo». Sarà stata la tensione, sarà stata la difficoltà di rendere al meglio l’esecuzione di una melodia così colma di storia davanti alla città tutta, potendo avvalersi solo di trombe lunghe e tamburi a tracolla, fatto sta che gli animi si scaldano, e il «capèllo» viene preso eccome.

Gli sbandieratori, che diligentemente stavano provando il “saggio” di bandiere da presentare in piazza, assistono tra l’attonito e il divertito a quegli scazzi conditi da salaci contumelie tutte toscane.

Non ci volle molto a capire che si doveva sdrammatizzare: una rapidissima e quanto mai risoluta colletta, e fu proprio l’autore di queste righe ad andare dal Grilli, nel Corso, a comprare un sombrero di paglia (50 cm. di diametro!) e tramandare ai posteri l’occasione vergandoci sopra con un pennarello nero data e motivazione del curioso «capèllo», poi consegnato fra le risate generali ai protagonisti degli alterchi.

Ancora oggi il messicano copricapo fa bella mostra di sé nella sede degli Sbandieratori, appeso fra i tanti cimeli ivi conservati.

Il 6 settembre 1987 sette trombe e cinque tamburi eseguirono l’inno in Piazza Grande, nel ritmico battimani di buona parte del pubblico. Nel filmato di allora, girato dalla finestra della sede sociale in Palazzo Lappoli dal futuro presidente Ugo Coppini, si nota lo stesso Pasquale Livi muoversi nervosamente intorno ai suonatori, forse scaricando così la tensione accumulata.

Ma la musica apparteneva alla città, e alla città tutta doveva subito ritornare. Dall’anno successivo, complice anche il fatto che parte del Gruppo Sbandieratori sarebbe stato impegnato nella trasferta in Sudafrica, anche il Gruppo Musici “William Monci” assimila quello spartito. Dal 1988 il Terra d’Arezzo viene quindi eseguito durante la Giostra dai due complessi congiuntamente, e gli esecutori sono tornati ad essere molte decine. La radicatissima popolarità del brano ha fatto sì che la cittadinanza lo adottasse alla stregua di inno “laico”, caso più unico che raro nel panorama delle città italiane. A conferirgli crismi d’ufficialità è stato nel 2015 il Consiglio Comunale, che all’unanimità approva una mozione per la quale dell’Inno della Giostra del Saracino viene suonato nella sala consiliare nelle sedute che precedono la Giostra del Saracino, subito dopo l’Inno di Mameli.

Oggi, quando l’Araldo ne annuncia l’esecuzione, tutti si alzano in piedi a sancire il momento solenne. E dopo che il capogruppo dei Musici solleva la campana della tromba a dare il segnale d’inizio, è una piazza intera che vibra e canta con orgoglio il proprio senso di appartenenza alla comunità.

da “L’Alfiere” – n. III – 2017, pagg. 8-9