Questa rubrica dedicata alle trasferte memorabili degli Sbandieratori in giro per il mondo esiste fin dalle origini de “L’alfiere” e si è concentrata davvero su tappe fondamentali della nostra storia. Quando Sergio Rossi mi ha proposto di occuparmi per questo numero della trasferta in Messico del 1968 eravamo come di consueto in palestra per gli allenamenti. Mentre mi illustrava la proposta io guardavo i ragazzi e gli uomini che fanno adesso parte del gruppo e pensavo che per la prima volta non avevo accanto nessuno che aveva preso parte alla spedizione olimpica. La riflessione è proseguita nei giorni successivi e ha toccato il concetto di “memoria storica” che mi riguarda in maniera centrale, visto che sono uno studioso di storia contemporanea. La memoria e le testimonianze sono, a livello disciplinare, un elemento importante delle fonti del ricercatore di storia e pongono, ovviamente, la necessità di un approccio rispettoso delle sensibilità del testimone ma anche il vaglio critico.

In origine ho pensato di interpellare alcuni dei personaggi che presero parte alla spedizione messicana ma alla fine mi sono imbattuto nella importante testimonianze scritta di Claudio Dini, pubblicata nel volume Mille bandiere fra storia e memoria, del 2010. In quel libro che – come riporta il sottotitolo – si occupa delle origini del gruppo e dei suoi primi grandi successi, moltissimo ci parla di Messico ’68, a dimostrazione della centralità di quella esperienza, dal punto di vista del prestigio come del suo vero e proprio mito per coloro che vi presero parte.

Nel contributo di Claudio Dini ci sono molti spunti meritevoli di essere ripresi e valorizzati nel mio articolo, a partire dal contesto: il 1968, sinonimo di contestazione giovanile che abbracciò l’interno mondo occidentale, non fermandosi all’Europa ma raggiungendo anche la popolazione studentesca messicana assetata di giustizia sociale, svecchiamento di costumi ed istituzioni a partire da quella governativa, giudicata autoritaria e tristemente monopartitica. Gli studenti protestavano proprio per la decisione dell’assegnazione della XIX edizione da parte del comitato olimpico, per la prima volta ad un paese in via di sviluppo, condizionato da povertà diffusa e seri limiti alla sua costruzione democratica. Evidentemente per il governo ospitare le olimpiadi significava riconoscimento internazionale e la crescita delle proteste, non solo limitate alla capitale, misero il comitato stesso nell’avviso di un possibile cambio di programma rivolgendosi verso la città statunitense di Los Angeles. Ma quelle olimpiadi a duemila metri si svolsero e determinarono una dialettica alla quale abbiamo più volte assistito: un evento sportivo di rilevanza mondiale circondato dalla peggiore repressione poliziesca. Questo ha riguardato la Coppa Davis vinta dall’Italia nel Cile di Pinochet, i mondiali di calcio in Argentina mentre si torturavano cittadini dissidenti. Mentre scrivo poi stiamo assistendo al mondiale in Qatar, attorno al quale aleggiano numerosi scandali (tangenti, autoritarismo politico, lavoratori pseudo-schiavi morti nella costruzione degli impianti).

Quando Claudio Dini ci descrive nella sua memoria scritta il luogo blindato che ospitava gli sbandieratori nella capitale si affretta a contestualizzare e ci ricorda come le proteste studentesche terminarono in un bagno di sangue. Il suo corretto riferimento è al tristemente noto “Massacro di Tlatelolco” del 2 ottobre 1968 con circa 300 morti e mille feriti nella Piazza delle Tre Culture, dove migliaia di studenti si erano dati appuntamento per manifestare contro il governo. L’esercito li represse e li uccise per tutta la notte e la celebre giornalista Oriana Fallaci, presente alla mattanza, venne ferita da tre proiettili e inizialmente creduta morta.

È complicato giustapporre questo contesto orrendo all’entusiasmo di un gruppo di ragazzi e giovani uomini che – probabilmente per la prima volta nella loro vita – si recavano in un luogo così esotico e remoto, per di più per esibirsi nell’arte che li stava contraddistinguendo come gruppo per eccellenza nel maneggiar l’insegna. La difficoltà di questo confronto nasce dalla storicizzazione della memoria appunto, nel momento in cui sono portato, per approccio scientifico e passione civile, a non riuscire a disgiungere la multifattorialità delle esperienze umane e politiche. Se rifletto su quanto sia stato biograficamente sprovincializzante recarsi a sbandierare in Messico per un giovane italiano della generazione del ’68 non posso non coglierne i risvolti addirittura fondativi per la personalità futura dei partecipanti. Se allargo il ragionamento alla funzionalità di quei giochi olimpici per il sostegno del regime autoritario messicano di quella stagione, ogni riflessione sul farne parte – anche se collateralmente – non può non prendere in esame il tema della eventuale liceità dello starne alla larga. Non mi addentro ulteriormente sulla questione complicata dell’arma politica dei boicottaggi miranti ad indebolire quei regimi che si basano sull’ingiustizia perché, estendendo la sensibilità odierna ai fenomeni del passato, non si fa necessariamente un corretto lavoro di documentazione storica.

Il Gruppo alla cerimonia inaugurale nello Stadio Azteca (Messico – 1968)

Tornando alla testimonianza di Claudio Dini, apprendiamo come quella partecipazione fosse all’interno di un festival internazionale del folklore e che fu la profonda impressione destata fra gli organizzatori dalle gesta dei nostri alfieri con la bandiera a farci catapultare all’interno dello stadio Azteca fra ottantamila spettatori, il 12 ottobre 1968, per la cerimonia inaugurale. Un interminabile giro di pista e venti minuti di esibizione al centro dell’impianto, fino alla definitiva consacrazione al momento dell’accesso degli sbandieratori alle tribune, attorniati da una folla più concentrata sulla loro presenza che a ciò che si svolgeva nel campo di gara. Oltre a quell’entusiasmante risultato il gruppo si esibì per giorni nelle piazze Santa Veracruz e Alameyda: qui si veniva addirittura chiamati per nome, a dimostrazione di quanto il gruppo fosse riuscito ad attrarre attenzione, simpatia e vicinanza da parte della popolazione locale.

La trasferta messicana inaugurava quel percorso decennale nei luoghi lontani del mondo che alla fine degli anni Sessanta non era minimamente pronosticabile. Quella generazione di sbandieratori non ha solo aperto una strada in seguito battuta da centinaia di alfieri, tamburini e suonatori di chiarina, ma ha determinato la prima importante “stratificazione dell’entusiasmo” per la militanza nel Gruppo. Da una trasferta di quel tipo si è tornati con la voglia di crescere tecnicamente e di approfondire le abilità personali da mettere al servizio della trasferta successiva, della piazza di domani, del pubblico che ci sarà e che avrà volti, lingue e forme di manifestazione di entusiasmo diverse.

A quella generazione di sbandieratori, giovani uomini del 1968, si dirige mentre scrivo la mia riflessione nel tentativo di contestualizzare e capire da dove vengo e cosa ho ricevuto in dote dalla loro esperienza. Il loro fiato corto per le corse a duemila metri è stato replicato nelle salite dei centri storici medievali di tutta Europa e i costumi stropicciati da mani che ti toccano mentre sfili fra la folla sono comuni a quel Messico come alla Corea e alle tante Nizza della nostra storia.

A Claudio Dini e alla sua memoria preziosa e acutissima, il mio personale grazie, perché – da studioso che maneggia la memoria e da tamburino che suona musica per il gruppo – attraverso le sue parole scritte ho imparato molto.

da “L’Alfiere” – n. IV – 2022, pagg. 8-9

Simone Duranti