Come studioso di storia, mi sono occupato soprattutto di nazismo, razzismo antisemita ed universo concentrazionario. È stato quindi di particolare rilievo personale la trasferta alla quale ho avuto il privilegio di partecipare con il Gruppo Sbandieratori nella cittadina di Oświęcim, la cui stessa esistenza risulta inevitabilmente connessa al complesso di campi di detenzione, lavoro coatto e sterminio universalmente noti come Auschwitz.

La città ha una storia antica risalente al medioevo, come parte dei ducati di Slesia e successivamente ducato indipendente, ma tutto questo appare in secondo ordine rispetto alla enormità degli avvenimenti successivi alla occupazione nazista che qui impiantarono il più grande e mortifero sistema di detenzione ed eliminazione durante la seconda guerra mondiale. Appare spontaneo chiedersi come una comunità di 40mila persone possa non risultare schiacciata dal peso di quel milione di vittime che perirono a Birkenau e di tutti coloro che, sopravvissuti, hanno contribuito a elaborare una memoria di sofferenza divenuta nei decenni simbolo stesso dell’odio razziale e del progetto di sterminio messo in atto dall’ideologia nazionalsocialista. Il tentativo di vivere una impossibile normalità si sostanzia di iniziative culturali, gemellaggi (come con la città di Arezzo, dal 2009) e di un complicato rapporto con i resti di quei Lager che distano così poco dalla città. Il turismo verso Auschwitz, amplificato enormemente dalla istituzione (circa vent’anni fa) del Giorno della Memoria a livello internazionale[1], ha generato persino un nodo storiografico legato alla percezione del Male nella contemporaneità, ai suoi inevitabili risvolti commerciali, alle possibili narrazioni che occupano ogni spazio museale, ponendo il quesito assai complesso di quali forme debba assumere un luogo che non espone bellezza ma l’orrore. Il tema è particolarmente importante per la storia e la sociologia (purtroppo assai meno per la politica) perché apre considerazioni etiche e morali che chiunque può cogliere a partire dal cancello di ingresso di Auschwitz. Quella scritta “Il lavoro rende liberi”, assurta a simbolo del male assoluto della civiltà contemporanea, non può sottrarsi, con il turismo della memoria, ad un processo di banalizzazione, fino al punto che ogni viaggiatore può notare file di turisti mettersi in posa per una foto ricordo di fronte al famigerato cancello o di fronte alle camere a gas. Il museo del campo nei decenni, e soprattutto dopo la fine della Polonia comunista, ha lavorato come un centro di ricerca per la didattica e si impegna con operatori culturali e guide a fornire un supporto di qualità per i milioni di visitatori che annualmente visitano Auschwitz. Non è questo il luogo per disquisire sul tema complicato delle narrazioni mai oggettive e mai neutre dei linguaggi che vengono impiegati nella comunicazione pubblica e anche in quella museale. Ci basti ricordare che ogni luogo che custodisce una memoria storica può essere trattato con sfumature diverse e che diversa ne risulterà la sua eredità a partire dalle esperienze vissute da parte dei visitatori.

Gli sbandieratori di Arezzo sono stati ad Oświęcim in due occasioni: nel settembre 2013 e nel settembre 2014, all’interno dell’ottavo e nono Meeting delle organizzazioni non governative.

La prima volta la spedizione fu molto ridotta (soltanto quattro di noi) mentre la volta successiva la formazione è risultata più ampia. L’amministrazione della cittadina si è prodigata nel mostrarci la rilevanza storica e culturale di Oświęcim al di là della presenza di Auschwitz e non possiamo dimenticare le visite ai simboli di quel passato medievale che la resero centro di rilievo fino alla occupazione svedese che la distrusse nel 1655. Guardando i bar, i locali da ballo e le vie del centro, mi sono chiesto spesso il peso inevitabile della presenza incombente di Auschwitz nei giovani di oggi, consapevoli che la stessa economia locale porti molti di loro a lavorare per il turismo connesso con il Lager. Il bisogno di prescindere dal campo è lecito e certamente comprensibile ma si scontra con la sproporzione fra la normalità del presente e l’eccezionalità del passato. Differente è la posizione del centro di maggiori dimensioni e di grande rilevanza storico-culturale rappresentato da Cracovia, nella cui gigantesca piazza ci siamo esibiti. Cracovia, bellissima città del rinascimento polacco, ospita fra le tante bellezze la Dama con l’ermellino, realizzata da Leonardo da Vinci fra il 1488 e il 1490. La presenza del governatore nazista Hans Frank (posto ad amministrare il Governatorato generale dei territori polacchi occupati, dalla fine del 1939) determinò lo spostamento del quadro addirittura nel suo ufficio nel Castello del Wawel, a dimostrazione del senso di onnipotenza che il nazionalsocialismo ebbe durante la sua breve quanto devastante esistenza.

Se penso al mio impegno decennale col Gruppo Sbandieratori trovo innumerevoli occasioni di crescita cultuale e di grande e sano divertimento. La dimensione ludica deriva non soltanto dai rapporti intergruppo, dalle dinamiche di amicizia e appartenenza ma dal significato stesso dell’essere una formazione che per essenza porta in giro per il mondo la leggerezza del colore, la bellezza e il sorriso delle bandiere che assumono ritmo e forma grazie alla disciplina. Chi ci osserva coglie almeno degli aspetti di questo insieme ed allora comprendo la grande esperienza di significato che ha assunto raggiungere ed esibirci ad Oświęcim. Ecco che quindi torna la domanda iniziale di questo articolo: è possibile far finta di niente? Si può attuare una separazione netta fra l’incombere plumbeo del passato e il diritto ad una vita normale, fatta anche delle nostre gesta artistiche? Non mi sento abilitato – proprio per la mia posizione di sbandieratore e di studioso di storia – a dare assoluzioni o risposte in una direzione come nell’altra. Ma posso comunque con questo articolo dare l’occasione al lettore di riflettere su quanto dovrebbe essere continuo per ogni persona portare testimonianza del nostro impegno di esseri umani degni di memoria: sfruttare le occasioni date dalle nostre competenze per lasciare un segno di speranza dignitosa.

Ed anche l’arte di maneggiar le insegne, per quanto piccola cosa di fronte all’orrore dello sterminio, resta testimonianza di quel bene che caparbiamente contende la scena al dolore. In ogni tempo. A qualunque condizione.

[1] L’istituzione del Giorno della Memoria ha sancito come data il 27 gennaio, giorno della liberazione del campo di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa nel 1945. Questo atto simbolico, se ha contribuito ad estendere la consapevolezza internazionale dei crimini contro la persona teorizzata su basi razziste dal nazionalsocialismo, ha determinato anche un risvolto più problematico: l’equiparazione fra politiche e ideologie di sterminio con Auschwitz, appiattendo su questa immagine una dinamica storica più complessa.

 

da “L’Alfiere” – n. III – 2021, pagg. 8-9

Simone Duranti