La guerra attuale fra Russia e Ucraina ha dimostrato quanto, soprattutto nelle sue fasi iniziali, grazie ai media di oggi sia possibile costruire una polarizzazione dei sentimenti che si concentri sulla sofferenza delle vittime e degli aggrediti. Gli slanci di solidarietà odierni di buona parte dell’occidente, Italia compresa, mi hanno fatto molto riflettere sulla selettività non universale della comprensione delle sofferenze dei popoli. Questo ragionamento non vuole inoltrarsi sul terreno scivoloso della comparabilità fra le varie guerre che insanguinano il mondo di oggi nel disinteresse dei più rispetto alla concentrazione sull’Ucraina, ma parte dal ricordo di quanto la comunità internazionale e i popoli europei siano stati più che disattenti verso la tragedia della ex-Jugoslavia. Giungo a questo ragionamento valutando alcune delle motivazioni che molti cittadini comuni e commentatori dell’informazione adducono per spiegare la solidarietà verso gli ucraini: sono europei, sono bianchi e si tratta di una guerra a noi molto vicina. Benché chi vi scrive riesca con fatica ad accettare l’etica della pace e della non violenza a geometria variabile, destinando il supporto o meno alle vittime civili in base alla geografia, al colore della pelle o al credo religioso, credo che un esercizio di memoria verso la vicenda balcanica degli anni Novanta sia utile proprio per confutare l’inevitabilità del principio di solidarietà odierna. Scritto brutalmente: che cosa ha impedito alla maggioranza dei cittadini e delle istituzioni europee di insorgere con sdegno alle prime avvisaglie del conflitto che sconvolse le comunità della ex-Jugoslavia, dal momento che si trattava di gente bianca, europea e ad un misero braccio di mare da noi italiani?
La mia risposta è duplice: da una parte va ricordato che negli anni Novanta la sensibilità pubblica non era ancora stata sottoposta alla cultura della pietà per le vittime civili incolpevoli che si è diffusa in occidente solo con l’11 settembre; dall’altra esiste, nemmeno troppo sottotraccia, un residuo di pregiudizio antislavo che in occidente e in Italia ha una storia secolare, largamente rinforzato dal nazifascismo. Oltre alle incontestabili responsabilità dell’hitlerismo nella formulazione di un durissimo razzismo antislavo che dai Balcani raggiungeva l’Unione Sovietica teorizzando la loro inferiorità biologico-culturale, il caso italiano è stato emblematico. Il pregiudizio antislavo diffuso in Italia durante il fascismo è stato consistente e di lunga data, alimentato da una politica estera che vedeva nel fronte balcanico un naturale terreno di penetrazione da parte italiana, ben oltre il tema dell’irredentismo. Il sospetto nei confronti della cultura e dei vari popoli che definiamo tradizionalmente “la gente slava” ha avuto una ricaduta importante nel giudizio collettivo e nella reazione popolare verso la guerra nel ex-Jugoslavia, a partire dall’assunto che si tratta di popoli diversi da noi, per durezza, e predisposizione alla violenza. Le migrazioni in Italia dagli anni Novanta hanno fatto il resto, rendendo difficile la solidarietà e la compassione delle persone verso i civili in fuga e molto pasticciata l’azione diplomatica dei governi per cercare di porre fine rapidamente ad uno dei conflitti più strazianti del XX secolo.
Con questo genere di pensieri e con grandissima curiosità culturale ho partecipato alla trasferta del gruppo sbandieratori nella città di Sarajevo. Chiese, moschee e una realtà multietnica e muticonfessionale; il ricordo del luogo nel quale scoccò la scintilla che incendiò l’Europa con il primo conflitto mondiale; le immagini negli occhi dei cecchini che sparavano dai palazzi del centro cittadino. Questo insieme di aspetti mi ha attratto e spinto a partecipare alla trasferta. L’invito da parte della ambasciata italiana ci ha riservato un momento istituzionale nella piazza antistante quella biblioteca che vide sacrificato il suo carico di cultura allo scempio del conflitto. Il nostro assessore e l’ambasciatore italiano hanno ricordato l’importanza del dialogo interculturale per il mantenimento e la fortificazione delle istanze di pace mai garantite una volta per tutte. Con questo stimolo il gruppo ha dato il suo meglio per ricordare il valore dell’arte e della cultura, soprattutto agitando vessilli multicolore che sono specchio evidente della nostra capacità di superare steccati ed effettuare sintesi in luogo della divisione.
Abbiamo alloggiato in un luogo davvero simbolo di quella città assediata per un tempo lunghissimo e sottoposta allo scempio di una guerra dolorosissima. Nel locale museo storico abbiamo visto le fotografie di come risultasse quello stesso edificio che ci ha ospitato, ma poi muovendoci per la città e osservando le facciate dei palazzi, le ferite erano ancora lì, rendendo superflua la memoria fotografica. Raramente ho visto tanto interesse da parte dei partecipanti alla spedizione a quella recente storia travagliata. Molti di noi hanno cercato luoghi e visto musei dedicati all’orrore di quella guerra. Mi sono recato di fronte alla statua del maresciallo Tito che oggi è alloggiata nel sottoscala del museo storico: la osservavo pensando al Novecento con le sue durezze e contraddizioni. Riflettevo sull’instabilità della convivenza interetnica e capivo che Sarajevo non è solo il simbolo di una speranza per l’oggi e il domani, ma soprattutto un monito. Da almeno venti anni, l’istituzione del Giorno della Memoria sta abituando i cittadini anche italiani ad un vero e proprio dovere del ricordo. Come tutti i doveri c’è dietro l’angolo il rischio della assenza di spontaneità e nel caso della guerra dei Balcani la nostra memoria è talmente labile da raggiungere l’assenza. Per questo la nostra trasferta è stata importantissima: ha reso più consapevoli ed informati i giovani che negli anni Novanta erano troppo piccoli o nemmeno nati; ha spinto al ricordo chi c’era e che, con senso di assuefazione, ha visto ogni sera le immagini di assedio e morte nei telegiornali con un impotente senso di distacco. Mentre dall’Italia partivano i bombardieri che avrebbero colpito le città di là dall’Adriatico ci veniva raccontata la necessità di quel genere di intervento come male minore rispetto all’atrocità del conflitto in corso. Guardando la reazione popolare, della politica italiana ed europea e dei mezzi di informazione all’attuale guerra russo-ucraina si potrebbe avere la speranza in un diverso livello di consapevolezza collettiva nei confronti dell’insensatezza dei conflitti che impattano sulle popolazioni civili. Ma lo sviluppo di questi mesi, con l’evidente affievolimento dell’interesse mediatico per una guerra che da prima notizia è passata rapidamente in secondo piano, ha dimostrato la fragilità e la superficialità della solidarietà iniziale.
Siamo quindi sempre gli stessi: esseri umani stimolati a ricordare ed empatizzare ma con la tendenza alla memoria breve e alla poca spontaneità dei sentimenti civilmente ispirati.
Anche per questo gli sbandieratori si ostinano da decenni a portare nelle piazze del mondo intero la nostra schermaglia, pensata non soltanto per fotografare l’eterna lotta fra il bene e il male, ma per esporre agli occhi del pubblico il suo momento di sintesi finale: l’abbraccio di due alfieri simbolo di un’umanità indivisibile non per condizione naturale ma per volontà.
da “L’Alfiere” – n. III – 2022, pagg. 8-9
Simone Duranti