Nel 1973, l’anno successivo alla prestigiosa trasferta di Harrogate dove qualche anno prima con la fatale attrazione latina il Ridolfi, il nostro caro “Berto”, aveva conquistato il cuore della Rita alla quale è ancora strettamente legato, siamo stati invitati a partecipare al Devon County Show. Questo è uno spettacolo agricolo che risale al 1872, qualcosa di più di una fiera agricola perché, oltre a esporre macchinari e bestiame, accoglie vari intrattenimenti a celebrazione della vita rurale del Devon. Sicuramente il nostro invito era collegato alla presenza di prodotti o macchinari italiani in esposizione, come frequentemente è successo nel corso di tutti questi anni.
Il Devonshire, oggi più sinteticamente Devon, il tempo è denaro e si risparmia su tutto, è una contea del Regno Unito, sulla penisola di Cornovaglia, famosa nel mondo per la bellezza dei suoi paesaggi: a perdita d’occhio si susseguono ripide scogliere che si affacciano su spiagge incontaminate o su un mare blu, vaste pianure e vallate ricche di boschi, ma anche villaggi e importanti siti archeologici.
Tutte le informazioni sui luoghi che ci ospitavano, all’epoca, venivano riassunte in un opuscolo distribuito prima della partenza dal Prof. Dini o dal consigliere che ci accompagnava. I minorenni potevano lasciarlo ai genitori prima di iniziare il viaggio per informarli sulla trasferta. Una volta partiti non avevamo la possibilità di comunicare con la famiglia se non ricorrendo ai telegrammi, visto che i telefoni erano rari e molte famiglie ancora non li possedevano. Ciò nonostante riuscivamo a vivere ugualmente “felici e contenti”, come si suol dire.
Finalmente siamo partiti, ancora un viaggio aereo e ancora in Inghilterra: un paese che suscitava un grande interesse per le differenze, per le singolarità degli usi e per l’emancipazione raggiunta. È passato un bel po’ di tempo e molti particolari purtroppo mi sfuggono, quindi potrei essere corretto ed integrato da chi era con me nel viaggio, ma questo non vuol essere un resoconto ma solo il raccontare un episodio, diciamo, singolare.
Giunti a Londra dovevamo raggiungere Exeter, distante circa 200 miglia, ovvero 320 km. Ad attenderci abbiamo trovato un autobus di linea, cioè di quelli utilizzati per i brevi tragitti urbani, non quelli rossi a due piani che già sarebbe stato almeno pittoresco, bensì un rigido mezzo con sedili fissi e scarsamente imbottiti, rumoroso e affatto confortevole. Ancora non esistevano i “gran turismo” ma con il nostro Moretti viaggiavamo in modo più che dignitoso. Lo spirito goliardico del gruppo si manifestò immediatamente con una serie di apprezzamenti e sfottò che l’autista non considerò neppure per un istante, mantenendo il caratteristico atteggiamento flemmatico e distaccato degli aristocratici londinesi, lui che aristocratico non lo era affatto. Erano le prime volte che affrontavo un viaggio in auto in Inghilterra, come pedone mi ero abituato a guardare bene prima di attraversare la strada e mi sentivo abbastanza sicuro, ma con l’autobus, quando agli incroci dovevamo svoltare a destra o a sinistra, la situazione si complicava perché ogni volta pensavo che ci saremmo scontrati con qualche altra vettura che veniva dalla parte opposta. La situazione divenne ancora più preoccupante quando, lasciate le grandi strade di Londra, ci siamo addentrati nelle campagne inglesi e più ci avvicinavamo al Devonshire più si facevano strette e immerse nel verde di una vegetazione che talvolta invadeva parzialmente la carreggiata. Il paesaggio e i piccoli paesi che attraversavamo, che ancora ricordo per la luce e i contorni “ovattati”, li ho rivisti nei film di Miss Murple, tratti dai romanzi di Agatha Christie. La differenza tra la metropoli londinese e i villaggi che incontravamo era straordinaria: in pochi chilometri eravamo tornati indietro di un secolo e forse più. Intanto, alle scosse e ai sobbalzi del mezzo, si era aggiunto un cattivo odore di bruciato, ben presto accompagnato dal fumo che filtrava da una botola posta al centro dell’autobus. Agli sfottò e le battute ironiche si aggiunsero anche gli improperi. Prima con un certo contegno poi con tono sempre più forte e deciso: “… autista c’è del fumo”; “…autista esce del fumo dalla botola”. Pensando che il problema fosse la lingua ci avventurammo anche in espressioni tipo “… driver smoke…”. Senza tuttavia riuscire ad attirare l’attenzione del conducente neppure con le grida dei passeggeri. Intanto era calata la sera ed anche questo contribuiva a rendere più preoccupante la situazione. Il fumo era aumentato così tanto che dal fondo dell’autobus non si scorgeva il posto di guida. Finalmente l’autista si decise ad arrestare il mezzo e ad aprire le porte per farci scendere e per controllare cosa stesse succedendo; aperta la botola sul pavimento potemmo vedere che stavamo andando a fuoco. Con una coperta fu soffocato l’incendio, ritengo appena in tempo per evitare guai più seri. Senza proferire parola l’omino prese una torcia e sparì nella notte. Eravamo in piena campagna e solo nei pressi potevamo vedere una casupola con una finestra illuminata. Finito il repertorio degli insulti per l’enigmatico autista, dovevamo trovare il modo di ingannare il tempo e sdrammatizzare la grottesca situazione: anche in questo i ragazzi non avevano rivali. Eravamo scesi tutti all’aperto perché l’aria all’interno del mezzo era ancora irrespirabile e camminavamo avanti e indietro per una stradina che portava alla casa con la luce accesa. Non so perché ma improvvisamente a qualcuno venne l’idea di fare una “billata”, che consisteva nel fare il verso del tacchino. Come sapete c’è un tacchino che per primo fa il suo verso e subito dopo tutto il branco lo ripete. E così successe che dopo ogni battuta o scherzo si ripetesse questo verso a squarciagola, tanto eravamo in piena campagna e, pensavamo, non diamo fastidio a nessuno. Ma non fu così perché dopo un po’ si apri la porta della casupola e apparve un uomo che si incamminò verso di noi con una lanterna in una mano ed un fucile nell’altra. Il branco dei tacchini rientrò velocemente ed in preoccupato silenzio nell’autobus, pronto a sostenere qualche altra prova estrema. Fortunatamente stava arrivando un nuovo autobus che ci avrebbe portato finalmente a destinazione.
Come nel film Johnny Stecchino con le banane, mi verrebbe voglia di suggerire: se andate in Cornovaglia non “fate” i tacchini perché da quelle parti si arrabbiano e potrebbe finir male.
da “L’Alfiere” – n. IV – 2020, pagg. 14-15