Come Associazione Sbandieratori di Arezzo siamo molto attenti alla qualità del nostro materiale e ai colori delle nostre bandiere e dei nostri costumi. Per questo motivo abbiamo chiesto a Marco, chimico appartenente alla famiglia di restauratori Nicola, di parlarci della storia di alcuni colori e dal suo entusiasmo sull’argomento è nata una collaborazione con la rivista L’Alfiere. Nicola Restauri è uno storico laboratorio di restauro di opere d’arte della famiglia Nicola presso il piccolo comune di Aramengo in Piemonte. Il laboratorio in oltre 70 anni di attività ha saputo crescere e svilupparsi grazie all’attività tramandata per generazioni, ed è attualmente una importante azienda di restauro che utilizza molteplici tecniche su diverse tipologie di manufatto storico ed artistico.

Come abbiamo già visto nel caso dell’indaco, la storia dei colori riserva spesso aspetti affascinanti e curiosi. Un altro esempio riguarda i coloranti usati per ottenere la colorazione rossa, anch’essi usati sin dalla remota antichità da popoli sparsi in tutto il mondo.

Non il pomodoro e nemmeno la patata o il mais furono il primo vegetale introdotto in Europa dal Nuovo Mondo. Fu invece probabilmente un’irsuta e spinosa pianta d’aspetto alieno e sconvolgente: il Fico d’India. La pianta non c’entra nulla con la moderna India ed è invece originaria del Messico ed è anche divenuta nel tempo parte essenziale del paesaggio in molte parti d’Italia e ne esistono coltivazioni DOP sull’Etna. Con l’ingresso di vegetali dal Nuovo Mondo cominciava quello che è definito Scambio Colombiano, fenomeno che comportò molteplici conseguenze sugli equilibri ambientali e per lo sviluppo umano. Fu forse la prima volta che si sperimentò la portata dell’impatto che poteva avere l’uomo sugli equilibri del pianeta e non sorprende quindi che gli storici abbiano scelto la data della scoperta dell’America come l’inizio di una nuova era. Il nome scientifico del Fico d’India (Opuntia ficus-indica) deriva dal fatto che Colombo pensava di essere approdato in India ma in alcune lingue la pianta ha preso denominazioni geografiche diverse, apparentemente contraddittorie. In francese, ad esempio, troviamo Figuier de Barbarie mentre in catalano Figuera de Moro (da cui il sardo Figu Morisca). Nei paesi del Nord Africa, al contrario, è invece anche noto come Fico dei Cristiani. L’apparente confusione è verosimilmente dovuta alla storia di diffusione della pianta. Probabilmente introdotto dagli Spagnoli in zone dal clima più mite, e di primo approdo, come le Canarie, dove è ancora ampiamente coltivato, il Fico d’India deve essere poi passato alle vicine coste del Nord Africa che è attualmente il principale produttore di frutti. È così possibile che si sia arrivati alla denominazione catalana (e sarda) riferita ai Mori e a quella francese in quanto Marocco, Algeria, Tunisia e Libia erano chiamati Stati Barbareschi, parola da cui deriva anche la parola Berberi.

Perché si scelse di tornare nel Vecchio Mondo proprio con quella pianta? Certamente i navigatori saranno stati colpiti dalla sua forma bizzarra che non aveva eguali in Europa. Erano di sicuro interesse i dolci frutti e le proprietà mediche e alimentari completamente da scoprire. A questi i motivi devono essere aggiunte le caratteristiche di resistenza che gli permisero di affrontare il lungo viaggio di ritorno nelle navi europee. Non si deve tuttavia dimenticare che nelle Indie non si voleva andare solo in cerca di oro e stravaganze ma soprattutto per portare indietro spezie e merci pregiate. Non è quindi forse un caso la scelta di tornare in Europa proprio con il Fico d’India, visto che nel volgere di pochi anni la coltivazione dello strano cactus rivoluzionò il settore dei coloranti rossi. A dirla tutta non era, quindi, probabilmente solo la pianta in sé a destare interesse negli esploratori europei ma anche i suoi parassiti: le cocciniglie americane. Le cocciniglie, in generale, appartengono alla famiglia della coccoidea, e sono ampiamente diffuse anche in Europa parassitando molte delle nostre piante ornamentali. Le cocciniglie americane interessavano perché i nativi li usavano per ottenere un colorante, il carminio o cocciniglia, e riuscivano a tingere in rosso i tessuti molto meglio di come si riuscisse a fare nel Vecchio Mondo.

Il laboratorio della Famiglia Nicola

Per gli europei, tuttavia, il colorante rosso derivato dagli insetti non rappresentava una novità. Infatti, in antichità nel Mediterraneo, i principali coloranti rossi per tintura si ricavavano o dalle radici della pianta della robbia (il cui nome deriva dal latino ruber che significa rosso) o da alcuni insetti parassiti delle piante, in particolare il Kermes vermilio, che vive su alcune querce e fu usato sin dal neolitico. Il kermes dava una tonalità molto apprezzata definita scarlatto (dal persiano saqerlât che significa caldo panno di lana), in generale più brillante e accesa rispetto alla robbia. Esistevano anche altri insetti usati per lo stesso scopo. In India, ad esempio, l’insetto Laccifer lacca era usato per produrre un colorante rosso-arancio. Lo stesso insetto produce anche la gommalacca per lustrare i mobili, la ceralacca degli antichi sigilli è ed è utilizzato per molti altri usi. In zone limitrofe all’area mediterranea erano inoltre impiegate la cocciniglia dell’Armenia e quella Polacca da cui si ricavava il colorante detto Sangue di San Giovanni. Sebbene quest’ultime siano varietà più pregiate ebbero un uso più limitato rispetto al kermes soprattutto a causa della maggiore difficoltà di produzione. Va precisato poi che, soprattutto in epoca romana, era stata usata anche la preziosissima porpora di Tiro che aveva una tonalità più fredda e spostata verso il violetto e non si ricavava da insetti ma da molluschi del genere murice. La porpora di Tito fu simbolo di lusso estremo e appannaggio di pochi, perché anche tingere una sola veste comportava un lavoro enorme, necessitando di migliaia e migliaia di murici.

In ogni caso è dalle modalità della produzione del kermes che si originano i termini cremisi e carminio e il nome del liquore alchermes e tutte queste parole derivano dal sanscrito krimiga che significa prodotto da insetti. È interessante notare come l’etimologia di vermiglio e vermiglione sia analoga a quella di kermes ma ricalcata sul latino vermiculus, che infatti significa rosso, oltre che larva e verme. Il Kermes vermilio era in effetti un insetto e non propriamente un verme ma poco importava visto l’aspetto generale di questi sgradevoli parassiti che in alcune fasi del loro sviluppo sembravano strisciare. Va precisato, comunque, che la parola vermiglione è finita poi per essere storicamente associata al rosso cinabro (solfuro di mercurio), un pigmento minerale che non ha alcuna attinenza con gli insetti.

Con la scoperta dell’America, il colorante ricavato dalle cocciniglie americane soppiantò piuttosto velocemente l’uso del kermes. Aveva, infatti, un potere colorante circa dieci volte superiore rispetto al kermes ed era pertanto molto più economico. Nel giro di pochi anni diventerà una delle principali ricchezze importate dal Nuovo Mondo. Dopo aver surclassato gli altri coloranti estratti da insetti, si imporrà sul mercato del tessile per secoli.

Cocciniglia americana, kermes e lacca indiana sono come detto estratti da insetti e sono rispettivamente principalmente costituiti da acido carminico, acido kermesico e acido laccaico. Curiosamente, però appartengono tutti alla stessa classe di coloranti come anche il colorante rosso vegetale estratto dalla robbia. Devono tutti il loro colore alla presenza di una struttura aromatica simile all’antracene, costituita da tre anelli di benzene affiancati. La comprensione di questo tipo di strutture e la rivoluzione chimica e industriale del XIX secolo porterà alla sostituzione di molti coloranti naturali come la robbia e l’indaco che verranno soppiantati dai ben più economici analoghi sintetici. La produzione di cocciniglia naturale, tuttavia, sopravvisse meglio a questi cambiamenti ed è arrivata ai giorni nostri. Il suo ambito di impiego prevalente si è però spostato dal tessile ad altri settori.

Pensate di non aver mai mangiato estratti di insetto? Che solo in Estremo Oriente si mangino quelle cose? È quasi certo che vi sbagliate. Con un po’ di sorpresa, infatti, oggi ritroviamo l’uso dell’estratto di questo insetto soprattutto nel settore alimentare e in quello dei cosmetici, trattandosi semplicemente di un colorante naturale. Un tempo usato soprattutto in pasticceria e per la produzione dell’alchermes, la cocciniglia, sotto il nome di E120, Natural Red 4, Acido Carminico e con molte altre terminologie ha trovato impiego in una sterminata serie di prodotti più o meno industriali tanto che possiamo affermare di esserci già da tempo tutti o quasi cibati degli estratti di questi insetti. Solo per citare alcuni esempi, fino a pochi anni fa era presente in tutti o quasi i più famosi marchi di aperitivi, succhi di frutta, yogurt, dolciumi, e in tutti o quasi i prodotti rossi o rosa di qualsiasi marca. È inoltre usata per migliorare il colore di insaccati, salmone, hamburger ed altri prodotti. Negli ultimi anni la pressione dell’opinione pubblica ha fatto sì che il suo uso fosse però gradualmente ridimensionato e nel comparto alimentare attualmente è stata spesso sostituita da altri coloranti artificiali come l’E122 e l’E124. L’uso di cocciniglia naturale comunque permane in alcuni prodotti alimentari e resta diffusissimo nel comparto cosmesi, soprattutto per rossetti e fard. Vegani e vegetariani siete avvisati!

da “L’Alfiere” – n. III – 2023, pagg. 14-15

Marco Nicola