Il colore della grande maggioranza delle pietre, della sabbia e del suolo è determinato da alcuni elementi di transizione, generalmente ferro e manganese. Il ferro in contatto con l’ossigeno e con l’acqua forma minerali di un’infinità di tonalità tra il giallo e il rosso, mentre il manganese spinge verso il bruno. Talvolta si hanno anche tonalità sul verde. Da questi minerali si ricavano i pigmenti chiamati “terre”. Ciò che è importante precisare è però che in questo modo si ottengono tonalità morbide e mai il blu profondo. È per questo che non troverete sassi blu lungo la riva del mare, se non qualche sasso con riflessi bluastri, né spiagge di sabbia blu.

Tuttavia, più di 8.000 anni fa, cioè molto prima della nascita della scrittura, i popoli stanziati lungo la Valle dell’Indo fecero una scoperta sensazionale nella catena montuosa dell’Hindu Kush, nell’attuale Afghanistan. A 2600 metri di altitudine, presso le sorgenti del fiume Kokcha, avevano trovato una montagna dal cuore di un blu che non sembrava di questo mondo. Il cielo in terra.

La pietra della montagna blu è quindi una straordinaria eccezione e deve il suo colore, non a un elemento di transizione, ma ad un fenomeno elettronico che avviene nel suo principale costituente, un raro minerale chiamato lazurite, un complesso alluminosilicato di calcio e sodio contenente anche zolfo e cloro, formatosi a causa di eccezionali condizioni geologiche. Il colore magico di quella pietra fu presto associato a proprietà fuori dall’ordinario. Le popolazioni locali cominciarono ad estrarla e a portarla verso i loro insediamenti per farne amuleti e gioielli. I mercanti la portarono ai popoli vicini e col tempo la sua fama si diffuse in tutto il mondo conosciuto.

La parola per indicare il blu nelle lingue della Mesopotamia e in Antico Egitto deriva dal nome che aveva quella pietra. Hsbd in Egitto (dove fu usata, ad esempio, nella maschera di Tutankhamon) e uknû in Mesopotamia (vedi lo Stendardo di Ur). Da quest’ultimo deriverà kuwano in area Egea che porterà poi al greco κυανός (kyanos) poi arrivatoci nella forma ciano, avendo nel frattempo cambiato la sua tonalità di riferimento. È anche prefisso di tante parole attinenti al concetto di blu-azzurro-livido come cianobatteri (alghe azzurre) o cianotico.
In effetti, per una dinamica evolutiva del linguaggio piuttosto interessante, precedentemente non esisteva nemmeno la parola “blu”. Il blu è infatti uno degli ultimi colori che viene concettualizzato in tutte le culture come teorizzato nel 1969 da Berlin e Kay in “Basic Color Terms: Their Universality and Evolution”. Per il blu non esisteva un termine astratto che racchiudesse in sé tutta la gamma di sfumature. Accadeva, invece, come per il color oro, che per identificarlo era necessario usare il nome del materiale come termine di riferimento. Per indicare il colore blu all’epoca si usava quindi il nome della pietra blu.
Per secoli e millenni quel luogo remoto rimase l’unica fonte di quella pietra. Più recentemente se n’è scoperta anche in altri luoghi, soprattutto in Cile e Russia. Piccole quantità anche in Italia sul Vesuvio.
Ma torniamo al termine “azzurro”, seguendo la rotta commerciale della pietra. In sanscrito la pietra blu si chiamava rājāvarta, in persiano lâjvard, in arabo lāzaward che nel medioevo era traslitterato in latino come lazulum. Essendo una pietra venne chiamata quindi “lapis” lazulum. Dal termine lazulum, cadde la L iniziale, interpretata come articolo, e si pervenne quindi ad azulum per indicare il blu. Da questo derivano lo spagnolo e il portoghese “azul” per indicare correttamente ciò che noi chiamiamo “blu”. Deriva anche l’italiano “azzurro” ma curiosamente a causa della presenza del termine “blu” si è ottenuta una inversione di significato. “Blu” (dal latino blavus: slavato, schiarito) indica un colore scuro e intenso mentre “azzurro” (il colore del lapislazzuli) è riservato alla tonalità più chiara.

Parliamo adesso, invece, di quel pigmento di tonalità blu profondissima che viene chiamato Oltremare. In origine, il blu oltremare non era nient’altro che una polvere blu ottenuta con una speciale tecnica di macinazione proprio a partire dalla preziosa pietra afghana. Ma perché è necessaria una speciale tecnica di macinazione? Questo punto è importante e rientra nel più generale intento di conferire i colori alla materia. Se in natura troviamo un colore che ci piace e lo vogliamo “rubare” per impartirlo a qualcos’altro, come si fa? Se si provasse a ricavare il colore da un fiore colorato o da un’erba con ogni probabilità si otterrebbe, infatti, un liquido di tonalità alterata, destinato a sbiadire. Un po’ meglio funzionerebbe con i minerali, il cui colore della polvere, seppur sbiadito, è generalmente stabile alla luce. Questo effetto è dovuto alla diffusione della luce. I granelli di pietra tenderanno, infatti, a riflettere e diffondere la luce un po’ in tutte le direzioni e non in modo ordinato come accadeva prima della macinazione. Pensate al vetro. Anche quello colorato diventerà bianco se macinato.

Per ovviare al problema, già in antichità, si elaborò un metodo speciale di macinazione e raffinazione del lapislazzuli che permetteva di ottenere una polvere blu di colore molto intenso. Il procedimento, ripetuto più volte, prevedeva l’uso di cera, resine, oli e liscivia. Non si sa esattamente quando venne messo a punto ma, all’inizio del 1400, Cennino Cennini nel suo famoso “Libro dell’Arte” ce ne dà una dettagliata descrizione.

Prima del periodo medioevale l’uso del lapislazzuli in forma di pigmento era del tutto eccezionale e se ne hanno pochissime attestazioni, mentre, a partire dal Medioevo, diventa il pigmento blu per eccellenza. Esistevano altri pigmenti blu come l’azzurrite e il blu egizio; tuttavia, il blu ottenuto dal lapislazzuli era considerato il più bello, ed era più desiderato e più costoso.

Il costume blu del Comune di Castiglion Fibocchi

Dato il suo elevato costo e il suo pregio, il pigmento veniva riservato a poche parti dei dipinti come il manto della Madonna e del Cristo, i quali, infatti, se notate, sono generalmente blu. Emblematico è il caso della Cappella Sistina. Poiché secondo il contratto i materiali per il Giudizio Universale erano a carico del Papa, Michelangelo fece larghissimo uso di blu di lapislazzuli, forse il più esteso in assoluto in Occidente, usandolo addirittura per lo sfondo. Al contrario egli stesso ne usò ben poco quando alcuni anni prima aveva affrescato la volta con i materiali a suo carico.

Nel Rinascimento il pigmento blu ottenuto dal lapislazzuli era davvero pagato a peso d’oro. Arrivava da oriente e il principale snodo commerciale dove veniva scambiato in occidente era Venezia, tanto che nel resto d’Europa era conosciuto come “Blu di Venezia” e poi “Oltremare”. A Venezia, infatti, arrivava da “oltre il mare”, da “al di là del mare”. Questo è il motivo del suo nome di “blu oltremare” ed è anche il motivo per il quale il blu di lapislazzuli si trova più spesso nei quadri dei pittori veneti. A Venezia, infatti, il pigmento costava meno non dovendo pagare ulteriori dazi.

Dato l’altissimo costo che continuava ad avere e alla scarsità di valide alternative, nell’800 vi fu una ossessiva ricerca volta a trovare un metodo per produrlo artificialmente. Il Governo francese mise in palio un ricco premio per chi fosse riuscito nell’impresa e quando nel 1828 il risultato fu raggiunto vi fu un aspro contenzioso tra due ricercatori, il francese J. Guimet e il tedesco C. Gmelin, che ne rivendicavano l’invenzione e il premio. Alla fine, la Francia dovette riconoscere la vittoria al tedesco. Nonostante ciò, il pigmento prese il nome di Bleu Guimet. Quella denominazione non ebbe molta fortuna e poiché chimicamente era praticamente identico al blu di lapislazzuli si cominciò semplicemente a chiamarlo Blu Oltremare Artificiale. Il pigmento artificiale fu davvero rivoluzionario. Il costo era crollato e la tonalità era meravigliosa e profonda, forse perfino più del pigmento naturale. Il suo fascino ipnotico ha influenzato profondamente l’arte fino ai giorni nostri e continua a meravigliare. Alcuni artisti, incantati da questo colore straordinario, hanno costruito la propria carriera su di esso e vi hanno legato il proprio nome, come ad esempio il Blue Majorelle e il famigerato International Klein Blue di Yves Klein.

da “L’Alfiere” – n. IV – 2023, pagg. 14-15

Marco Nicola