Non era la prima volta che il Gruppo arrivava in Giappone ma in precedenza si era trattato di delegazioni o della sola Schermaglia interpretata, in quell’occasione, dall’immancabile Gigi Salvadori e dal Bocciardi che aveva sostituito Andrea Imparati, probabilmente impossibilitato per qualche motivo personale.  Questa volta invece le cose si facevano sul serio ed il Gruppo intero si ritrovò nel volo Alitalia che, “saltellando” da un aeroporto all’altro, finalmente giunse nel Paese del Sol Levante. Indimenticabili gli scali di Nuova Delhi, dove i passeggeri in transito erano costretti a rimanere all’interno dell’aeromobile che si stava rifornendo, mentre scheletrici inservienti ripiegati sulle gambe, passando tra i sedili, facevano le pulizie; quello di Bangkok dove, usciti dalla fusoliera per uno scalo tecnico, ci ritrovammo immediatamente bagnati tanto elevato era il grado di umidità nell’aria; infine l’atterraggio ad Hong Kong, nel pericolosissimo aeroporto di Kai Tak, durante il quale rimanemmo con il fiato sospeso vedendo sfilare fuori dagli oblo i grattacieli in mezzo ai quali stavamo atterrando. Veramente impressionante. Poi finalmente Tokyo. In quegli anni, a causa della crisi monetaria innescata dall’aumento del prezzo del petrolio e delle materie prime che penalizzavano la nostra bilancia dei pagamenti, in Italia vigevano restrizioni che limitavano la libera esportazione di valuta in contanti che, nel caso di viaggi turistici, non poteva superare le 500.000 lire annue. Spero che la memoria non mi inganni ma, nel caso, la cifra poteva anche essere inferiore.

Eravamo partiti con l’idea di poter acquistare una macchina fotografica o comunque un apparecchio elettronico, poiché notoriamente in Giappone costava, talvolta, anche meno della metà che non da noi, tuttavia la somma si prospettava insufficiente allo scopo. Così ciascuno si ingegnò nel nascondere un po’ di dollari (le lire venivano penalizzate con un rapporto di cambio scandaloso) dove pensava meglio; io ricordo di averli infilati infondo alla coda del cappuccio del costume, subito dopo il nodo che ero solito praticare. Per la verità avevo con me anche un assegno a traenza bancaria sulla banca giapponese Mitsubishi, si trattava solo, si fa per dire, di trovare la sede centrale della banca per andare a cambiarlo. Comunque, andando per gradi, alcuni di noi scesero dall’aereo indossando i costumi per fare pubblicità alla compagnia aerea con la quale periodicamente collaboravamo. Ad attenderci uno stuolo di fotografi, naturalmente non solo per noi ma il fatto metteva pressione e ci rendeva oltremodo orgogliosi di una simile accoglienza. Per l’occasione, chi non era in costume, indossava una divisa nuova di pacca: uno spezzato con giacca blu in doppiopetto e distintivo, camicia e cravatta; facevamo una grande figura che avvalorava la nostra reputazione e ci rendeva ancor più importanti agli occhi degli ospiti. Il nostro hotel, che verosimilmente era il Kinza Hotel, fortunatamente era nel centro di Tokyo, vicino ai Grandi Magazzini della Mitsukoshi che, in collaborazione con la Regione Toscana, promuoveva la settimana dei prodotti italiani e una mostra dell’Opificio delle Pietre Dure. La delegazione italiana era formata dai funzionari della Regione e dal sindaco di Arezzo Aldo Ducci che, al suo ritorno in città, ringraziò ed esaltò gli Sbandieratori per il contributo offerto alla buona riuscita dell’iniziativa culturale ed economica. Cercherò di sintetizzare ma le particolarità e le curiosità di questa trasferta sono veramente molte. Dalle finestre del Kinza Hotel potevamo osservare file di scrivanie all’interno di un grande edificio che, evidentemente, ospitava una serie di uffici. Quello che doveva essere il caporeparto, all’ora prestabilita, faceva interrompere il lavoro per coordinare l’attività motoria dei colleghi che, diligentemente, svolgevano il previsto programma di allenamento prima di riprendere il lavoro quotidiano. Ancor più emblematico lo sciamare ordinatissimo per le scale esterne al palazzo a fine giornata. Perfettamente allineati, nessuna spinta o tentativo di sorpasso, nessun contatto e in assoluto silenzio: tutto questo per noi era (ma ancora oggi lo è) inverosimile. Ci incantavamo a vedere tanta perfezione ma non so se era ammirazione o frustrazione per un simile comportamento: mancavano le risate, le battute e magari anche qualche imprecazione al termine di una giornata di lavoro durante la quale, forse, qualche cosa poteva essere andato storto. I grandi magazzini occupavano un intero palazzo di otto piani (solitamente per motivi antisismici questa era l’altezza dei palazzi in quella zona). Noi giornalmente ci esibivamo nell’ampio terrazzo in cima al tetto che ospitava una sorta di giardino con bar e punto di ristoro. La nostra presenza in costume tra i vari piani e i padiglioni già era motivo di grande curiosità e ammirazione, ma gli squilli delle trombe e il rullare dei tamburi erano una scioccante provocazione per il loro di modo di vivere e relazionarsi con il prossimo. Sicuramente attiravamo l’attenzione che si attendevano gli organizzatori ed il successo fu garantito. Ricordo che gli ascensori all’interno dei magazzini erano una sorta di navicella spaziale che sfrecciava a velocità inaudita tra un piano e l’altro tanto che lo stomaco, dopo i primi viaggi, dava segni di insofferenza ed accusavo anche una leggera vertigine che mi costringeva a preferire le scale, ma non ero il solo. In ogni ascensore era inoltre presente una graziosa ragazza in uniforme e guanti bianchi che premeva i bottoni annunciando “steni ani mas” oppure “eni mani mas” (solo la pronuncia può essere verosimile) per indicare che l’ascensore stava salendo o scendendo. Non so come facevano a sopportare quelle continue sollecitazioni, mantenendo il sorriso e la compostezza degli inchini rivolti a chi entrava o usciva dalla navicella. Ogni fine giornata gli allestimenti venivano cambiati e riassortiti con merce italiana diversa. Uscito il pubblico, un esercito di operai invadeva i piani, ognuno aveva un attrezzo ed un compito specifico. Il responsabile disponeva di un inserto con fogli trasparenti contenenti l’immagine degli oggetti e degli scaffali che, di volta in volta, dovevano essere rimossi; ognuno sapeva perfettamente cosa togliere, cosa svitare, inchiodare o riporre. L’operazione veniva ripetuta meccanicamente sino al completo svuotamento del padiglione, allora veniva preso un nuovo inserto con fogli trasparenti e l’operazione ricominciava in senso inverso, fino al completo montaggio ed esposizione della nuova merce. Inutile dire che questa maniacale organizzazione consentiva di portare a termine l’intervento in brevissimo tempo. I pasti tipicamente giapponesi ci fecero abituare ben presto alle famigerate bacchette con le quali, alla fine, riuscivamo a catturare anche i singoli chicchi di riso, unico alimento sicuramente identificabile fra i tanti che affollavano i piatti. La curiosità e l’appetito della gioventù incoraggiavano nello sperimentare una tradizione culinaria estremamente diversa dalla nostra, inoltre i prezzi proibitivi dei cibi “occidentali” non lasciavano spazio a scelte diverse.

da “L’Alfiere” – n. IV – 2021, pagg. 14-15

Carlo Lobina