Fin dalle sue origini l’uomo ha cercato di fissare sopra un supporto un’immagine mediante la quale esprimere un sentimento, ricordare un’esperienza o comunque lasciare una traccia del proprio vissuto. Tra le prime forme d’arte, che segnano la nascita di questa stupefacente attività umana, vi sono le incisioni rupestri, in particolare quelle rinvenute in Val Camonica. Già l’uomo preistorico aveva compreso che, con un oggetto appuntito, poteva scalfire una superficie lasciandovi sopra segni permanenti destinati a durare nel tempo, anche oltre la propria esistenza. In seguito, con la scoperta dei metalli – il primo dei quali fu il rame intorno al 5.000 circa a.C. – si è passati dall’incisione e lavorazione con utensili in pietra a quelli forgiati in metallo. Le realizzazioni riguardavano non soltanto oggetti per le necessità della vita quotidiana o armi per uccidere o difendersi dagli animali, ma anche manufatti di mero ornamento senza alcuna evidente finalità pratica, che rispondevano tuttavia ad un’ancestrale esigenza umana di abbellire il proprio corpo. È recente la notizia del ritrovamento di un ciondolo d’avorio, il più antico gioiello ad oggi rinvenuto che risale ad oltre 40.000 anni fa, a testimonianza di quanto atavico è dentro di noi il bisogno di adornare la nostra persona di suppellettili e monili. Amuleto, simbolo o ornamento, in ogni epoca il gioiello ha accompagnato la storia dell’uomo e non c’è tradizione che non lo affianchi alla storia di un popolo. Per limitare l’oggetto di indagine al nostro territorio, ad Arezzo esistevano laboratori capaci di creare opere di alta oreficeria.
Le botteghe orafe erano situate laddove, fin dagli Etruschi, si producevano gioielli: nel cuore della Città. Via di Seteria e Corso Vittorio Emanuele (attuale Corso Italia) sono state il punto strategico per la creazione di manufatti pregiati in bronzo, argento ed oro. Dopo la produzione aurea etrusca è stata la volta degli artigiani medievali, come si evince dagli Statuti degli orafi aretini del XIV secolo, dove si trovano tracce della presenza di laboratori orafi, e tra questi anche la bottega del padre di Spinello Aretino. Atti tributari sono stati ritrovati nelle fonti documentarie aretine, dove venivano annotati compravendite, riscossioni e pagamenti, dimostrandoci che la città, in campo orafo, era molto attiva. Orefici come Ercolani, Bottai, Michelangioli, Sardini, Borghini, Salmi, realizzavano sia prodotti sacri che profani, riempiendo le chiese del territorio di vere opere d’Arte, come il Busto Reliquiario di San Donato.
La tradizione proseguì nei secoli successivi, ma lo stimolo maggiore alla creazione di gioielli, avvenne soprattutto verso la fine del Settecento, con la richiesta di immagini della Madonna del Conforto in seguito al noto miracolo del 1796, che segnerà profondamente la storia della nostra città e dei suoi abitanti. Contemporaneamente a quelli con l’immagine della Santa Vergine, gli abili artigiani aretini iniziarono a produrre anche “i chianini”, anelli che avevano la finalità di soddisfare le esigenze di varie e diverse fasce della popolazione locale. La consuetudine nata in Valdichiana di usarli come dono nuziale – da qui il nome di “fedi chianine” – rese possibile una grande produzione di stampo artigianale, che si interruppe solo in seguito alla nascita, nel 1926, della fabbrica aretina “Gori e Zucchi” (UnoAErre) che su larga scala creava ben più affascinanti gioielli. Le fedi chianine rappresentavano, più di altri oggetti di uso comune, un legame affettivo connaturato alla persona in quanto individuo sociale, e caratterizzavano gli avvenimenti fondamentali della sua vita: la nascita, il fidanzamento, il matrimonio e la morte. Spesso, le fedi venivano lasciate a determinati discendenti, al di là delle regole patrimoniali, come ad esempio da suocera a nuora, costituendo una vera e propria tradizione per tramandare la memoria. Non è difficile trovare persone che le hanno ereditate da nonne e bisnonne, passando dalla famiglia dello sposo a quella della sposa.
Nel territorio aretino l’usanza di offrire doni per chiedere o ringraziare di un beneficio ricevuto è una pratica usata fin dal tempo del popolo etrusco. Dopo l’avvento del cristianesimo, questa consuetudine si intensificò. Così, tra i molti monili donati, ci furono anche le fedi chianine. Due esemplari sono sopravvissuti alla dispersione di questi ex voto e sono conservati presso la chiesa di San Giuseppe di Lucignano.
Le caratteristiche di questi oggetti sono ben definite e riconoscibili. Le modalità di lavorazione sono l’incisione a bulino, lo sbalzo, il cesello e l’incastonatura. L’incisione veniva effettuata con il bulino e la lavorazione consiste nell’asportare il metallo creando dei solchi. Lo sbalzo, invece, crea degli splendidi rilievi realizzati con l’utensile in legno usato come scalpello. La cesellatura permette di ottenere particolari decori spostando il metallo da una parte all’altra attraverso dei colpi dati con il cesello. Infine, l’incastonatura delle pietre era eseguita usando diversi tipi di gemme di scarso valore economico, appoggiate sopra un piatto in argento o in oro. Montavano perle, cristalli di rocca, granati, vetri colorati trasparenti, paste vitree, tormaline e qualche turchese. Rarissimi il quarzo rosso, l’ametista ed altre pietre di maggior pregio. Le montature erano (tra le venti e le trenta unità di modelli diversi uno dall’altro) tutte leggerissime, a fiore per un tipo (quasi esclusivamente femminile) ed a riviera per un altro (sia per uomo che per donna). Un gioiello chianino è molto vistoso, leggero e luminoso, ed ha, all’interno, la ceralacca (come dimostrano alcuni modelli senza pietre), in modo da risultare meno fragile e dare più sostegno ad alcune montature, proprio come facevano gli antichi romani. Quasi la totalità ha la forma di un fiore, con un giro di vetri, pietre semipreziose o perle di otto castoni, più una centrale; l’oro è legato con un’alta percentuale di rame, e quindi di colore rossiccio. Alcuni degli artigiani che hanno realizzato questi monili, lasciavano l’impronta del loro marchio con il punzone proprio sul gambo della fede.
Nonostante la loro semplicità e lo scarso valore economico, questi gioielli, in un certo periodo storico, erano molto amati anche da fasce sociali altolocate, come attesta il “Ritratto del Granduca di Toscana Ferdinando III d’Asburgo-Lorena”, un quadro realizzato nel 1837 dal pittore Tommaso Palloni per la quadreria del Comune di Monte San Savino nel cui Palazzo Comunale tuttora si trova esposto. Nell’opera, così come individuato dall’archeologa e dall’allora Sindaco della città Margherita Scarpellini, il Granduca indossa all’indice della mano destra un anello a forma di rosetta con perle scaramazze, che è palesemente una fede chianina.
Successivamente, nel corso del ‘900, la moda si orientò diversamente. Nessuno, infatti, desiderava più quei vecchi gioielli scuri, opachi e di poco valore, il cui destino divenne così quello di essere fusi o, nel migliore dei casi, di restare abbandonati in un polveroso cassetto.
Negli ultimi dieci anni sono stati riscoperti ed hanno avuto un successo inaspettato. Divenuta una moda sotto tutti i punti di vista, la ricerca di fedi originali non ha confini: da Milano a Roma, da Torino a Venezia, l’interesse per questi affascinanti monili e per la loro storia travalica persino i confini. Infatti, arrivano richieste di notizie e di reperibilità di fedi chianine perfino da Australia, Argentina, America e Giappone. A tal proposito, proprio una Troupe di giapponesi ha realizzato, nel 2019, un documentario sulle fedi chianine visitando la mia bottega dove è esposta la collezione che ho raccolto negli anni.
da “L’Alfiere” – n. II – 2023, pagg. 6-7
Olimpia Bruni