Da alcuni anni è invalso il termine giapponese “tsunami” per descrivere in una sola parola un disastro improvviso, imprevedibile e incontrastabile. Letteralmente significa “onda di porto”, che in italiano possiamo tradurre in “maremoto”, ma il linguaggio comune lo utilizza ormai come sinonimo di evento distruttivo, inatteso e repentino.

Quello del Coronavirus è certamente un accadimento dirompente e a rapida propagazione, ma non del tutto imprevedibile. Non occorre essere virologi per sapere che per una pandemia la vera domanda non è “se accadrà”, ma “quando accadrà”. Gli scienziati sono costantemente in allarme nel mondo, puntando il radar su focolai allo stato embrionale o sottoponendo a screening popolazioni di animali dai quali alcuni ceppi di virus possono mutare e infettare un ospite umano. Il lavoro di epidemiologi e biologi indica che, tanto per fare un esempio, la famiglia dei Coronavirus può mutare dai pipistrelli all’uomo. Non scomodiamo teorie complottiste di laboratori segreti e attacchi NBC.

E allora, come è potuto succedere che il mondo occidentale, che si riteneva così evoluto nel campo dell’assistenza sanitaria, si sia fatto travolgere dagli eventi come un vero e proprio tsunami?

La domanda è di complessità enorme ed esula dal senso di queste pagine, ma ciò su cui possiamo riflettere è la nostra capacità di adattamento di fronte a situazioni estreme, le conseguenze a medio-lungo termine e il compito che spetta anche alle associazioni come la nostra.

Di fronte ad una guerra combattuta contro un nemico invisibile e largamente sottovalutato all’inizio, nel quale non ci sono rovine da rimuovere o armi da fuoco in azione, ma comunque al prezzo di tanti morti e di macerie economiche che sconteremo per anni, lo stato d’animo è un misto di incredulità, ansia, debolezza, angoscia, impotenza e frustrazione, aggravato dall’egoismo dei singoli: che rabbia constatare come, nel contrastare un grave pericolo comune, non si possa contare sulla piena disciplina dei cittadini!

Di fronte allo scoramento possiamo e dobbiamo però far leva sui valori positivi che pur sono emersi, almeno in Italia: la responsabilità professionale e sociale, l’abnegazione, la generosità incondizionata, il rispetto reciproco, l’appartenenza. Si è assistito, insomma, ad un diffuso risveglio delle coscienze e ad una resilienza del tessuto socio-economico per certi versi inattesa.

Ecco, è sul senso d’appartenenza che ci dobbiamo muovere e distinguere anche noi, come associazione di promozione sociale. Ci siamo attivati subito nel dare, nel nostro piccolo, un contributo alla comunità cui tanto dobbiamo e che ci identifica come modello positivo e aggregante. Rimandati a chissà quando i nostri impegni ordinari, allenamenti e trasferte, ci siamo messi a disposizione per fare da traino a iniziative di aiuto concreto.

Purtroppo, un evento di tale portata storica segna inevitabilmente un “prima” e un “dopo”, e porta con sé la distruzione di tante certezze, abitudini e comportamenti acquisiti in decenni di sostanziale pace; dobbiamo sentire anche noi tutta la responsabilità di traghettare la nostra generazione fuori da questo tsunami. È un compito gravoso per chiunque, molto al di sopra di quanto è nelle possibilità dei singoli, ma “niente è davvero difficile se lo si divide in tanti pezzettini”.

La ricostruzione del tessuto sociale, economico e culturale è dunque una responsabilità che ricade su ciascun soggetto della comunità, e gli Sbandieratori di Arezzo faranno la loro parte.

Sursum Corda!

da “L’Alfiere” – n. I – 2020, pagg. 2-3