Come Associazione Sbandieratori di Arezzo siamo molto attenti alla qualità del nostro materiale e ai colori delle nostre bandiere e dei nostri costumi. Per questo motivo abbiamo chiesto a Marco, chimico appartenente alla famiglia di restauratori Nicola, di parlarci della storia di alcuni colori e dal suo entusiasmo sull’argomento è nata una collaborazione con la rivista L’Alfiere. Nicola Restauri è uno storico laboratorio di restauro di opere d’arte della famiglia Nicola presso il piccolo comune di Aramengo in Piemonte. Il laboratorio in oltre 70 anni di attività ha saputo crescere e svilupparsi grazie all’attività tramandata per generazioni, ed è attualmente una importante azienda di restauro che utilizza molteplici tecniche su diverse tipologie di manufatto storico ed artistico.

I colori sono un aspetto fondamentale dell’arte e si ottengono in generale usando pigmenti e coloranti. Le vicende che nel corso dei secoli e dei millenni hanno interessato ciascuna di queste sostanze, sono spesso affascinanti e ricche di molteplici sfaccettature. Un esempio è la storia dell’indaco, il principale colorante blu che, con alterne fortune, è stato usato dalla preistoria fino ai giorni nostri.

Un punto fondamentale della sua storia è alla fine del 1400 quando un famoso navigatore sconvolse gli equilibri mondiali stabilendo una nuova rotta marittima. Avete capito a chi mi riferisco? No, non è Cristoforo Colombo, che voleva raggiungere le Indie viaggiando verso occidente, ma Vasco da Gama che voleva raggiungerle, in modo altrettanto folle e geniale, navigando verso sud. Il 20 maggio 1498, dopo aver attraversato l’Oceano oltre il Capo di Buona Speranza, il portoghese raggiunse finalmente Calicut, ristabilendo il millenario collegamento tra Oriente e Occidente che da tempo si era interrotto. La Via della Seta, infatti, che da secoli collegava i popoli dell’Est e quelli dell’Ovest non era più sicura e praticabile a causa del collasso dell’Impero mongolo e della conquista di Costantinopoli da parte degli Ottomani.

Negli anni immediatamente successivi grandi quantità di spezie, merci preziose e idee cominciarono così nuovamente ad essere scambiate tra i due estremi del mondo. Particolare rilievo avevano i coloranti, e tra di essi l’indaco, ricavato dalla pianta Indigofera Tinctoria e che deve l’origine del nome proprio alla provenienza dall’India. Il colore blu profondo quasi violetto è dovuto a una molecola chiamata indigotina, il cui nome è legato a quello della pianta stessa. L’indaco era tenuto in alta considerazione sin dall’antichità, tanto che Isaac Newton, nella sua opera Opticks del 1704 gli riserverà un posto tra i 7 colori dell’arcobaleno, esattamente il sesto, considerandolo un colore fondamentale. La sua importanza è dovuta al fatto di essere blu. Il cielo e il mare sono blu, ma non era possibile rubarne il colore per conferirlo ad esempio a un tessuto. I colori dei fiori non durano nel tempo e i minerali e le pietre blu sono pochi, rari e difficili o impossibili da lavorare. La natura non offriva molto ma l’indaco permetteva di superarne i limiti.

Ben prima del ritorno dell’indaco indiano, si era capito che anche in Europa cresceva qualche pianta che produceva un po’ di indigotina e che poteva essere usata per estrarne un colorante blu-azzurro. La più famosa e diffusa tra queste era l’Isatis Tinctoria da cui si ricavava il gualdo o guado. Giulio Cesare racconta che lo usavano già i Britanni per tingersi il corpo e spaventare i nemici. Quell’uso così bizzarro aveva colpito talmente tanto i Romani che decisero di chiamare “Pitti”, da picti, cioè dipinti, i popoli del nord delle isole britanniche. Nei secoli successivi i Pitti si unirono con gli Scotti e tra una battaglia e l’altra fu così che l’azzurro finì per essere il colore della bandiera scozzese e finì anche, in modo un po’ anacronistico, sulla faccia di Mel Gibson nel film Braveheart.

Il laboratorio della Famiglia Nicola

L’origine della parola blu non è del tutto chiara ma sembra derivare dalla parola latina blavus che significa sbiadito, chiaro. Tale nome è probabilmente legato al fatto che il colorante blu che si ricavava dal gualdo nel Nord Europa era più chiaro rispetto a quello intenso e profondo che proveniva dall’India. In epoca rinascimentale il mercato del gualdo diviene talmente importante che quando cominciò ad arrivare l’indaco indiano in alcune parti d’Europa furono approvate leggi per proteggere l’industria del gualdo dalla concorrenza. Nel 1577 il governo tedesco proibì ufficialmente l’uso dell’indaco, denunciando come quella sostanza perniciosa, ingannevole e corrosiva, fosse tintura del diavolo. In Francia, Enrico IV, in un editto del 1609, proibì sotto pena di morte l’uso del colore indiano. Sempre in Europa, nel triangolo tra Tolosa, Albi e Carcassonne nel ducato di Lauraguais si era talmente tanto sviluppata la coltura e il mercato del gualdo che da allora sono definite il Paese di Cuccagna da cocagne, il nome francese del panetto di tintura blu che si usava per commercializzare il prodotto.

Con quel colorante si è prodotto anche uno dei simboli della modernità e dell’Occidente, i pantaloni di jeans. È noto che la parola jeans è legata al nome della città di Genova. La città era una potenza marinara nella quale si costruivano navi e si trasportavano merci che dovevano servire l’Europa. A Genova c’erano cantieri navali all’avanguardia che disponevano di tecnologie per costruire navi in grado di solcare gli oceani. Ci volevano i migliori materiali, i legni più pregiati, il cordame e la stoffa robusta e di basso costo per coprire e proteggere le merci più preziose, per vestire i marinai e la stoffa per fare le vele, il motore delle navi. Ma Genova era una città stretta, tutta schiacciata tra la costa scoscesa e le montagne subito alle sue spalle. Non si potevano coltivare estensivamente piante adatte a produrre fibre tessili. Non si potevano nemmeno lavorare filati grezzi perché non c’era spazio per grandi opifici. Però si potevano scambiare merci. Gli ingegnosi e astuti imprenditori piemontesi non si lasciarono sfuggire l’occasione. Un’intera area del Piemonte si chiama Canavese. Prende il nome forse dal nome di un’antica città chiamata Caneva ma secondo alcuni è per via delle coltivazioni estensive di canapa che vi erano. In Piemonte tale pianta era davvero molto diffusa e gli artigiani piemontesi erano esperti di tecnologie tessili e sapevano bene come filarla, lavorarla e tingerla. Si lavorava anche il lino. Non ci volle molto per trasferire quelle tecnologie sul cotone. E fu così che a Chieri, città vicina al canavese e all’epoca più grande di Torino, ricche famiglie di tessitori convertirono la loro produzione ai tessuti di fustagno, un’innovativa stoffa molto robusta ed economica fatta con lino e cotone che tingevano di blu con il gualdo che cresceva abbondante nella zona oppure con l’indaco che era sempre più economico e proveniva dall’India insieme al cotone. Anche a Nîmes in Francia, non lontano da Marsiglia avevano capito l’affare e si buttarono sulla produzione del nuovo tessuto blu. Era fenomeno comune che le merci prendessero il nome dalla zona della loro provenienza. Uno dei due tessuti prese quindi il nome di Denim che deriva da De Nîmes cioè tessuto della città di Nîmes e l’altro invece da Genova, che pur non essendo il punto di produzione era comunque il punto di imbarco e quindi, agli occhi del resto del mondo, di provenienza.

Passarono gli anni e, nel 1853, in seguito alla scoperta dell’oro in California, Levi Strauss fondò a San Francisco la Levi Strauss & Co. per vendere robusti capi d’abbigliamento utili ai cercatori d’oro. Nel 1871 il sarto Jacob Davis aggiunse ai pantaloni i rivetti in rame per rinforzare i punti maggiormente soggetti ad usura, come le tasche, particolarmente riempite dai cercatori d’oro e dai minatori. Nel 1873 i due si misero in società e presentarono il brevetto dei famigerati pantaloni da lavoro di blue jeans. Nel ‘900 i blue jeans diventano uno degli emblemi più caratteristici dell’Occidente segnando profondamente la moda e la cultura. Attraversando tutte le tendenze e le divisioni sono divenuti allo stesso tempo un’icona della classe operaia e status symbol per rampolli di successo, imprenditori e giovani sportivi. E tutto questo grazie all’indaco.

da “L’Alfiere” – n. I – 2023, pagg. 14-15

Marco Nicola