Senz’altro, tutti nella nostra vita abbiamo avvertito, almeno una volta, la punta della freccia di Cupido toccarci il cuore, accompagnata da un senso di stordimento che non siamo riusciti a spiegarci; quella quiete zen che ci fa fluttuare a un metro da terra, che toglie il laccio alle emozioni più recondite e le fa galoppare libere e selvagge.

Sarete, poi, d’accordo con me se dico che non c’è sensazione più bella e più spaventosa di quella legata all’innamoramento: è tenera e struggente insieme, dolce e feroce se non siamo in grado di domarla. Quando ero poco più che una ragazzina, per flirtare, usavamo mandarci bigliettini, lettere e, perché no, poesie dotate di un certo senso artistico, tattiche letterarie evolutesi oggi a dismisura nell’era del digitale. Cambia l’ordine degli addendi, ma non il risultato, quello dell’amore che attraversa l’epidermide e scuote le sinapsi per attivare le palpitazioni, decise a sbatterci in faccia che questa volta è toccato proprio a noi. Ebbene, allora, recito leggendo:

“Trovommi Amor del tutto disarmato

et aperta la via per gli occhi al core,

che di lagrime son fatti uscio et varco:

però, al mio parer, non li fu honore

ferir me de saetta in quello stato,

a voi armata non mostrar pur l’arco.”

Lei si chiamava Laura e quel giorno colpì dritto al cuore di un uomo: Francesco Petrarca. Lui era disarmato, come lo sono tutti coloro ai quali, di punto in bianco, esplode il petto d’amore senza sapere da dove sia nato. Una corsia preferenziale quella che dagli occhi giunge dritta al cuore in meno di una frazione di secondo, baipassando qualunque sistema di sicurezza il nostro corpo possa mettere in atto e, bam! Colpiti. D’improvviso il suono del suo nome pronunciato sottovoce ci piace, ci coccola, diventa un mantra, quasi un tormento e se non lo ripetiamo di continuo ci pare possa sfuggirci dalle labbra per sempre.

“Quando io movo i sospiri a chiamar voi

e ‘l nome che nel cor mi scrisse Amore,

laudando s’incomincia udir di fore

il suon de’ primi dolci accenti suoi.”

Me lo immagino, il Petrarca, intingere la penna nel calamaio, con la punta imbevuta d’inchiostro tracciare le parole che ancora oggi leggiamo; sarà stato incerto, tremante, umano prima ancora di essere poeta eccelso. La veste rossa con la quale siamo abituati a vederlo ritratto non poteva che essere madida di sudore, spesso manto a coprire un incendio che, dentro di lui, portava lo stesso colore di fuoco. È così che a guidargli la mano lungo il foglio di carta giallastra fu la sua gioia, la nostra gioia, il suo strazio, il nostro strazio. Le sue parole descrivono il nostro stesso sentire, nonostante il mondo da allora abbia cambiato volto mille volte e più ancora e se fra noi e lui intercorre una distanza di secoli, ciò non vale per quella potente emozione che, con parole sue, fa gridare anche noi a squarciagola:

“Benedetto sia’l giorno e’l mese e l’anno

e la stagione e’l tempo e l’ora e’l punto

e’l bel paese e’l loco ov’io fui giunto

da’ duo begli occhi che legato m’ànno;

E benedetto il primo dolce affanno

ch’ì ebbi ad esser con Amor congiunto,

e l’arco e le saette ond’ì fui punto,

e le piaghe che’nfin al cor mi vanno.”

 

Citazioni:

F. Petrarca, Il Canzoniere, 1336-1374.