Avvertenza: in questo articolo troverete termini che oggi sono utilizzati come ingiuria, assolutamente scorretti da un punto di vista clinico e che, indubbiamente, vi colpiranno per la loro brutalità. Sono i termini “scientifici” con cui, fino a tempi piuttosto recenti, si definivano le persone con disturbi mentali; sono i termini che trovereste scritti nelle cartelle cliniche che sono conservate all’interno dell’Archivio Storico dell’Ospedale Neuropsichiatrico di Arezzo: alienato, mentecatto, idiota, imbecille, amente, demente, deficiente… erano diagnosi che oggi possono apparire violente ma che io non ho voluto mistificare in nome della politically correct. Sono parole che oggi ci fanno inorridire – se le pensiamo rivolte a una persona che soffre di disagio psichico – ma che rendono l’idea dello sforzo fatto, negli ultimi cinquant’anni, per modificare l’approccio alla cura che, molto spesso, inizia proprio dal coraggio di cambiare il modo con cui usiamo consapevolmente il linguaggio.

In alto: Viale d’entrata dell’Ospedale Psichiatrico e sullo sfondo la palazzina della Direzione (oggi è sede degli uffici amministrativi del dipartimento universitario)
In basso: Planimetria del villaggio manicomiale così come presentata alla Esposizione Internazionale d’Igiene Sociale e con la quale l’Istituto aretino ottenne la massima onorificenza con il diploma d’onore nel 1912.
Via delle Acacie è l’attuale viale Cittadini che costeggia la ferrovia. Il corpo centrale del villaggio è ancora in uso da parte dell’università e della ASL. La palazzina 12 (Cronici) è sede di un istituto scolastico. Le costruzioni 6-7-13-16 furono abbattute durante i lavori di costruzione dell’attuale ospedale San Donato mentre, a luglio 2022, sono state abbattute le palazzine 3-4-5 (cucina, scuola infermieri e centrale bagni). In questa versione non è ancora presente la Palazzina che ospiterà il reparto neuropsichiatrico a partire dal 1926 (aree 17 nella planimetria che in realtà non sono mai state costruite) – in quell’area oggi il reparto ricostruito dopo i bombardamenti del 1943 è occupato dalla biblioteca universitaria, dagli uffici dei docenti e dal Campus Lab.

Prima ancora dell’istituzione dei manicomi, i “mentecatti” aretini erano comunemente ricoverati – se ritenuti “gestibili” – all’interno delle carceri comuni (collocate nel Palazzo Pretorio, attuale Biblioteca Comunale), nel reparto carcerario dello Spedale di Santa Maria Sopra i Ponti (che copriva l’area che va dagli attuali Portici a via Garibaldi) e nell’Ospizio di Mendicità (oggi Casa di Riposo Fossombroni, più nota agli aretini come “Casa Pia”). A partire dal 1780, e per poco più di un secolo, la maggioranza dei casi psichiatrici più complessi veniva inviata al San Bonifazio di Firenze: il primo effettivo ospedale del Granducato toscano dedicato agli “incurabili” e ai “cronici”, categorie cliniche che includevano anche gli “alienati di mente”.

È il periodo storico che Foucault, nel suo libro «Storia della folla nell’età classica» (1961), definirà come quello del “Grande Internamento”: i manicomi – in Italia a metà ‘800 erano più o meno 140 le strutture riservate alla malattia mentale – erano al collasso a causa di un sovraffollamento che diventa emergenza nazionale. Nei vari istituti, infatti, venivano internati (e non raramente dimenticati) uomini e donne che non avevano alcun accenno di follia ma che erano comunque difficili da gestire per le famiglie e per la società: anziani “paralitici” non autonomi, idioti, alcolisti, vagabondi, indesiderati in genere. Il San Bonifazio, proprio a causa del sovraffollamento, decise di interrompere i ricoveri di persone provenienti da altre provincie e di dimettere quelli già presenti. Chiaramente un problema di non poco conto per Arezzo che dovette trovare soluzioni alternative, fra le quali quella di affidarsi all’Istituto senese che nell’arco di pochi anni, però, si trovò nelle stesse condizioni di quello fiorentino e dovette limitare gli ingressi dei pazienti di provincie esterne.

Un primo tentativo di risolvere politicamente la situazione – diventata ingestibile dal punto di vista igienico e sanitario – fu la Legge 2248/1865 che impose alle singole provincie italiane di dotarsi di strutture atte ad accogliere i “malati di mente” soprattutto se in stato di povertà. Ad Arezzo, una struttura fu istituita nel 1893 nell’ex convento dello Spirito Santo in via Garibaldi (il “Conventino” – poi sede della fascista Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale – MSVN) e denominata “Asilo per dementi”. Una struttura temporanea in attesa che l’Amministrazione Provinciale, presa coscienza dell’effettivo carico economico dell’invio di pazienti in strutture diverse, decidesse per la costruzione di un ospedale psichiatrico aretino. La decisione arrivò nel 1895 con la concessione del permesso ad acquistare il terreno della zona del Pionta (nota anche come “Duomo Vecchio”) e l’inizio dei lavori di sbancamento.

Dai documenti dal Cappellano del manicomio (Don Egidio Meacci) sappiamo che:

L’ospedale propriamente detto e appositamente fabbricato dall’amministrazione Provinciale, nelle adiacenze del colle detto “Pionta” e poi “Duomo Vecchio” col titolo di Manicomio Provinciale fu aperto il di 21 Maggio 1901.

Fu nominato Direttore dell’Ospedale l’alienista Guido Gianni, il quale fu al centro, dopo poco tempo, di alcune questioni amministrative (fu avanzata l’ipotesi che il concorso fosse pilotato), politiche (le elezioni del 1900 avevano visto la sconfitta dei partiti popolari e la nuova amministrazione non gradiva i popolari in posizioni di prestigio) ma, soprattutto, di origine alquanto pruriginosa: accuse piuttosto gravi di mancata sorveglianza e di “allegre comitive” che nottetempo erano impegnate in “favoreggiamenti d’amore” anche con “dementi” (in corsivo quanto riportato nel settimanale “L’appennino” del 9 settembre 1903). Uno scandalo in piena regola che culminò con l’allontanamento del direttore contestato e l’arrivo – nei primi giorni di agosto del 1901 – di Arnaldo Pieraccini, il Direttore che rimarrà in carica fino al 1950 (anno del suo pensionamento) e che inizierà la sua carriera ad Arezzo rivoluzionando il manicomio (a cui impose, prestissimo, il nome di “Ospedale Psichiatrico”) a partire dagli aspetti architettonici. La poetica descrizione del luogo, dal pamphlet presentato all’Esposizione Internazionale d’Igiene Sociale del 1912 (vedi didascalia dell’immagine):

Il manicomio di Arezzo è situato sulle amene storiche colline del Pionta […] a circa 300 metri sul livello del mare, in prossimità della Stazione ferroviaria […] da cui si gode il pittoresco panorama proiettato sul verde sfondo dei contrafforti appenninici posti a cavaliere delle alte valli dell’Arno e del Tevere. Gli fan corona a nord, come a garanzia di mitezze solatìe, le alte vette del Casentino chiomate di nevose selve di abeti, mentre a sud-est si disegnano a distanza, degradanti verso il piano fiorentino in modo da lasciare aperto l’orizzonte fino allo spazio infinito, i dolci colli della Chiana e del Chianti ubertosi. L’Istituto ha la disposizione e l’aspetto di un grosso e gaio villaggio. I fabbricati in stile vario sono disseminati qual e là con voluta discreta asimmetria, spaziati da giardini, da boschetti, da orti, da campi, da prati. Le popolate Colonie industriali e la Colonia agricola amplissima e operosa danno vista e colore al quadro; come la Scuola, la Chiesetta parrocchiale, gli Spedalini per le malattie comuni, il Padiglioncino per bagni, la Lavanderia, i vari Chalèt per giardinieri, per ortolani ecc. anche per il fatto di essere rappresentati da altrettanti edifici staccati e sparsi qua e là capricciosamente, danno l’impressione degli accessorî proprî ai quartieri scampagnati delle città moderne, tanto più che non mancano, come in questi, movimentate vie ampie e numerose, i larghi e le piazzuole con chioschi e fontane, l’intricata rete distributrice della energia elettrica per la illuminazione, per il telefono interno e interurbano, per gli usi medici e industriali […] L’area è di circa 18 ettari, la popolazione sui 600 alienati con un 150 persone in pianta organica addette al funzionamento della Azienda. Il costo dell’Istituto […] raggiungerà un totale di circa L. 2.000.000. La spesa di esercizio è stata per il 1910 di L. 361.863,89 con una giornata di presenza risultata in L. 1,76.

Il padiglione neurologico prima del bombardamento del 1943

L’Ospedale psichiatrico aretino vantò, nei primi anni del Novecento, diverse eccellenze e alcuni primati: fu il primo a dotarsi di un “Regolamento Organico” dopo l’entrata in vigore della legge 36/1904 (Legge Giolitti) che regolava gli internamenti, la cura e le dimissioni manicomiali, nonché le motivazioni che rendevano oggettivamente manicomiabili le persone, ossia essere pericolosi a sé, agli altri o risultare di pubblico scandalo. Rispose, fra i primi, alle linee guida legislative che chiedevano una riduzione drastica dei ricoveri (per evitare il sovraffollamento e le spese) mettendo in atto la cosiddetta assistenza domestica sussidiata, ossia la collocazione dell’alienato all’interno sotto la tutela di un familiare, di un istituto (perlopiù religioso) o di altra famiglia disponibile, in virtù di un sussidio mensile che permettesse il mantenimento del “fatuo” (la persona che a causa della sua patologia non poteva garantirsi il necessario sostentamento). Le colonie agricole e industriali costituirono l’ambiente ideale per l’applicazione dell’ergoterapia, la terapia del lavoro attraverso la quale i pazienti potevano evitare lo straniamento dell’inattività e che rendeva l’Istituto, per buona parte, autonomo dal punto di vista economico. Ma, sopra ogni altra cosa, l’adesione al principio – innovativo per il periodo – del cosiddetto no restraint, o più semplicemente del tentativo di abolire qualsiasi forma di costrizione sul paziente, da quella fisica a quella ambientale con l’abolizione di sbarre, mura e sistemi di contenzione; non una pratica scontata, considerato il fatto che i primi psicofarmaci sarebbero entrati in uso dopo più di quarant’anni. L’istituto aretino fu il primo manicomio italiano che, nell’aprile del 1926 e per convinto volere dell’allora direttore Arnaldo Pieraccini, si dotò di un padiglione neurologico e modificò il nome da Ospedale Psichiatrico a Ospedale Neuropsichiatrico. Lo scopo dichiarato fu quello di accogliere “[…] neuropatici non mentalmente compromessi” e di trasformare il manicomio in un effettivo ambiente di cura per tutte le malattie nervose. Il padiglione fu una vera eccellenza provinciale – e le testimonianze scientifiche ci dicono che lo fu anche a livello nazionale – nella cura, nel trattamento delle malattie nervose e, soprattutto, nell’intenzione di diventare un centro diagnostico d’avanguardia. Il progetto architettonico fu realizzato nell’ottica di tener separati i malati psichiatrici dai neuropatici e nel tentativo di equiparare l’approc­cio alla neuropatia a quello di qualsiasi intervento medico praticato negli ospedali comuni. Del reparto non resta nulla: la palazzina, architettonicamente costruita in stile liberty, fu rasa al suolo dal bombardamento che Arezzo subì il 2 settembre 1943 (vedi immagine). Da un report:

Più di cento furono le bombe che esplosero nell’area dell’Ospedale. Di queste, molte colpirono gli edifici, alcun dei quali (come il Villino della Porterìa esterna, il padiglione Neurologico, il Panificio e mulino, la Colonia agricola maschile) poterono considerarsi come rasi al suolo, mentre altri furono profondamente lesionati o diroccati a metà (come i due Reparti per inquieti). La rete di illuminazione e di distribuzione dell’energia motrice, l’impianto telefonico interno ed esterno, le tubature, la fognatura, tutto rimase profondamente lesionato

I pazienti – in seguito al bombardamento – furono in parte inviati al San Niccolò di Siena e, in parte, sfollarono al Castello di Galbino nei pressi di Anghiari. Solo nel 1946 i pazienti, insieme a medici e infermieri, cominciarono a fare ritorno nell’Istituto e iniziarono i lavori di ristrutturazione delle palazzine e degli ambienti recuperabili.

Il padiglione neurologico dopo il bombardamento del 1943

Al pensionamento di Arnaldo Pieraccini, subentrò come direttore il prof. Marino Benvenuti che concentrò la sua attività nella ricostruzione del Reparto Neurologico (che riaprì nel 1957 nella forma che, adesso, è visibile e che accoglie la Biblioteca Universitaria e il Campus Lab e, al primo piano, gli studi dei docenti) e nell’implementazione dell’attività di cura neurologica che incluse anche la pratica neurochirurgica. Benvenuti fondò, inoltre, la «Rivista di Neurobiologia», pubblicata dall’ONP, e diventata successivamente organo ufficiale della Società dei Neurologi Ospedalieri Italiani.

Nel 1971 assunse la direzione dell’Istituto il prof. Agostino Pirella (braccio destro di Franco Basaglia a Gorizia) che, fin da subito, ebbe il compito di traghettare l’Ospedale di Arezzo verso la sua definitiva dismissione in ottemperanza alla Legge 180 del 1978 (nota anche come Legge Basaglia). Dal febbraio del 1980, all’interno dell’OP (Ospedale Psichiatrico), non si registrano nuove ammissioni e l’ex manicomio, o “Tetti Rossi” come era conosciuto da tutti gli aretini, chiuse definitivamente le porte alla malattia psichica il 29 giugno del 1990. Con lui si è chiusa, simbolicamente, una storia di segregazione e di emarginazione sociale della “follia” ma alla quale non si può non concedere la giustificazione temporale: ogni epoca ha le sue scoperte mediche e scientifiche che cambiano, in meglio, l’approccio alla salute umana che alle generazioni successive appaiono primitive, sbagliate, disumane. Eppure nessuno tra noi, oggi, può anche solo immaginare cosa diranno delle nostre tecniche, del nostro approccio alla malattia psichica, fra 100 anni: mi piace immaginare che non ci giudicheranno con la stessa scontrosa saccenza che utilizziamo noi per giudicare le teorie e le pratiche di 100 anni fa. Erano uomini, donne, medici del loro tempo che agivano con gli strumenti, le conoscenze e la mentalità del loro tempo. Esattamente come facciamo noi illudendoci che il progresso scientifico non ci smentirà nei prossimi decenni. Ma è solo illusione…

 

da “L’Alfiere” – n. III – 2022, pagg. 4-7

Laura Occhini

Ricercatrice, docente di psicologia clinica e dello sviluppo (Dipartimento di Scienze Sociali, Politiche e Cognitive – Università di Siena)